La trombosi in gravidanza è più frequente in soggetti geneticamente predisposti

Trombosi in gravidanza: tutto ciò che bisogna sapere

La comparsa di una trombosi in gravidanza è un problema da tenere certamente in considerazione quando una donna si appresta ad affrontare la gestazione.
Le donne in gravidanza, infatti, hanno un rischio cinque volte maggiore di sviluppare una trombosi rispetto alle donne non gravide, e nei paesi occidentali la trombosi in gravidanza è la principale causa di morte materna.

È importante che le donne conoscano questa patologia, che peraltro desta molta preoccupazione anche nella popolazione generale.
Infatti, conoscere la propria situazione di rischio e saper rilevare eventuali sintomi permetterà di agire rapidamente e con efficacia, qualora si verificasse il problema.

Che cos’è la trombosi in gravidanza

La trombosi in gravidanza è un processo di coagulazione improvvisa del sangue all’interno di una vena, che avviene nel periodo della gestazione.
Questa condizione clinica interessa più frequentemente le vene degli arti inferiori, sia superficiali che profonde, ma può colpire anche le vene della pelvi, cioè la parte bassa dell’addome.

Il motivo principale per cui la trombosi è pericolosa è legato alla possibilità di una embolia.
Gli emboli sono dei frammenti di sangue coagulato che si staccano dalla sede di trombosi e seguono il flusso del sangue, che li veicola prima al cuore e poi ai polmoni, dove terminano la loro corsa ostruendo i vasi della circolazione polmonare.
La comparsa di una embolia ai polmoni si manifesta con dolore al torace e difficoltà a respirare, ed è una complicanza grave che può essere anche mortale.

Il secondo fattore di pericolosità legato alla trombosi in gravidanza è il possibile sviluppo di una sindrome post trombotica.
Questa condizione clinica è caratterizzata da un gonfiore ingravescente della gamba dovuto all’esteso danneggiamento che la trombosi causa alle vene, che diventano incapaci di drenare il sangue.

La sindrome post trombotica compare con maggiore frequenza se la trombosi interessa le vene iliache o femorali, evenienza che tra l’altro è particolarmente frequente in gravidanza.
Se non trattata precocemente, la sindrome post trombotica diventa irreversibile e può causare la comparsa di fibrosi e ulcere alle gambe.

Cause della trombosi in gravidanza

Il rischio di trombosi in gravidanza è dovuto all’aumentata facilità con cui il sangue coagula all’interno delle vene.
Ci sono persone più predisposte di altre alla trombosi in quanto presentano determinati fattori di rischio, sia legati alla genetica che ad eventi patologici ambientali.
In presenza di fattori di rischio, la possibilità di sviluppare una trombosi è la stessa in tutti e tre i trimestri della gravidanza, e diventa addirittura più alta nelle prime sei settimane dopo il parto.

In generale, la trombosi all’interno di una vena si sviluppa in conseguenza di tre meccanismi:
– ristagno di sangue;
– alterazioni delle cellule della parete venosa;
– modificazioni nei componenti del sangue che attivano la coagulazione.
In gravidanza sono implementate tutte e tre queste situazioni.

Primo, durante la gravidanza si verifica un persistente ristagno del sangue nelle gambe e nella pelvi a causa dell’azione degli ormoni sessuali femminili, che riducono il tono delle vene facendo diminuire la loro attività propulsiva.
Inoltre, il progressivo ingrandimento dell’utero gravidico crea un ostacolo meccanico al ritorno di sangue al cuore, aggravando la situazione.
A causa di fattori anatomici, l’arto inferiore sinistro è più colpito da questo fenomeno, in quanto la vena iliaca sinistra passa dietro la sua arteria satellite, che la schiaccia.

Secondo, al momento del parto le vene pelviche possono subire un danneggiamento meccanico a causa della spinta espulsiva del feto, sviluppando una trombosi.
La trombosi delle vene pelviche, peraltro, è piuttosto rara al di fuori della gravidanza.

Il terzo fattore favorente la trombosi in gravidanza è il più importante. Lo sviluppo di iper-coagulabilità del sangue è dovuto alla necessità, da parte dell’organismo, di fronteggiare il rischio di emorragie legate al parto. Ricordiamo, infatti, che nei paesi sottosviluppati l’emorragia è la principale causa di morte materna.
Sotto lo stimolo ormonale, la donna in gravidanza produce una maggiore quantità di proteine della coagulazione, sviluppando di conseguenza una forte suscettibilità del sangue a coagulare.

Sintomi della trombosi in gravidanza

Se la trombosi in gravidanza interessa le vene superficiali delle gambe, i sintomi principali sono il dolore e l’arrossamento lungo il decorso della vena.
Inoltre, spesso in gravidanza compaiono delle vene varicose, a causa dell’azione ormonale e dell’ingrossamento dell’utero, ed è noto che le vene varicose sviluppano più facilmente una trombosi rispetto alle vene sane.

Una trombosi in gravidanza può essere legata alla presenza di vene varicose

Quando sono colpite le vene profonde delle gambe, invece, il rischio di embolie polmonari è statisticamente più alto.
I sintomi più comuni, in questo caso, sono il gonfiore o il dolore acuto ad una gamba, spesso presenti contemporaneamente; altre manifestazioni possono essere l’arrossamento o la difficoltà a camminare.

Come già detto, in gravidanza aumenta l’incidenza di trombosi della vena iliaca, una grossa vena della pelvi che raccoglie tutto il sangue dell’arto inferiore corrispondente convogliandolo alla vena cava inferiore, che a sua volta lo porterà al cuore.
Una trombosi iliaca può manifestarsi con dolore addominale o dorsale e con gonfiore acuto che interessa tutto l’arto; siccome questi sintomi possono essere ricondotti alla gravidanza stessa, a volte capita di non riconoscere una trombosi iliaca e ritardandone la diagnosi.
In gravidanza, infatti, le gambe tendono a gonfiarsi per l’ostruzione linfatica causata dalla crescita del feto, mentre il dolore pelvico o dorsale può essere correlato all’azione meccanica dell’utero che agisce come un peso.

Come si diagnostica una trombosi in gravidanza

Se compaiono sintomi suggestivi di trombosi in gravidanza, la prima cosa da fare è recarsi con urgenza ad effettuare un ecodoppler venoso. Questo esame, totalmente non invasivo, permette infatti di riscontrare velocemente la presenza di una eventuale trombosi.

Una trombosi in gravidanza può essere diagnosticata con l'ecodoppler

Nel caso ci sia un forte sospetto legato ai sintomi ma non sia possibile fare subito l’ecodoppler, è consigliato iniziare immediatamente la terapia anticoagulante con le punture di eparina, a meno che questo farmaco sia controindicato.
Una volta effettuato l’ecodoppler si potrà capire se il trattamento va continuato o meno, e in questo modo si eviterà di restare senza terapia nel caso in cui la trombosi fosse effettivamente in atto.

Se è presente una trombosi pelvica, l’ecodoppler venoso potrebbe non essere in grado di riscontrarla. In tal caso, la paziente dovrà eseguire una risonanza magnetica addominale con mezzo di contrasto, evitando invece la TAC, che comporterebbe una grossa dose di radiazioni per il feto.

Infine, ricordo che il dosaggio del D-Dimero nel sangue non ha molta utilità durante la gravidanza, al contrario di quanto accade in una situazione normale.
Questa molecola, infatti, è fisiologicamente aumentata durante la gestazione, perché è un frammento di degradazione di una proteina coagulativa, e al pari delle altre molecole di questa categoria viene prodotta in quantità maggiore sotto lo stimolo ormonale.

Profilassi e terapia della trombosi in gravidanza

In presenza di determinati fattori predisponenti è consigliato prevenire la trombosi in gravidanza attraverso una profilassi con terapia anticoagulante.
Quando si fa una profilassi, il dosaggio è di solito ridotto a una somministrazione al giorno, e al momento del parto, solitamente spontaneo, non viene sospesa la terapia.

In presenza di una trombosi in gravidanza, invece, è opportuna una terapia anticoagulante a dosaggio pieno, di solito mediante due somministrazioni giornaliere, in quantità dipendente dal peso.
Il parto viene generalmente programmato, in modo da sospendere la terapia anticoagulante alcuni giorni prima.

Il farmaco di prima scelta, sia per la profilassi che per la terapia, è l’eparina a basso peso molecolare, sotto forma di punture sottocutanee.
Questo farmaco è generalmente ben tollerato, ma a volte può provocare un calo delle piastrine oppure generare una risposta allergica; inoltre, essendo espulsa attraverso i reni, tende ad accumularsi eccessivamente nelle persone con problemi di insufficienza renale.

La trombosi in gravidanza viene trattata con le punture di eparina

In presenza di una controindicazione alla somministrazione di eparina, il farmaco di seconda scelta è il Fundaparinux, sempre sotto forma di punture sottocutanee; questa sostanza, che inibisce una specifica molecola della coagulazione, non avrebbe però ancora una totale evidenza di sicurezza in gravidanza, e per questo va usata in casi selezionati.

Per quanto riguarda gli anticoagulanti assunti per bocca, sappiamo che il Warfarin attraversa la placenta ed ha un noto effetto teratogeno sul feto, cioè causa la comparsa di malformazioni. Per questo motivo non può essere assunto in gravidanza.
I nuovi farmaci anticoagulanti orali, chiamati con l’acronimo DOAC’s, sembrerebbero attraversare la placenta, e al momento i potenziali rischi sul feto non sono conosciuti.

Chi è a rischio di trombosi in gravidanza

Nonostante il fisiologico aumento della coagulabilità del sangue, la maggior parte delle donne in gravidanza non necessita di profilassi, perché i rischi di emorragia supererebbero quelli di trombosi.

Ci sono, però, alcune categorie di persone maggiormente a rischio di trombosi in gravidanza; queste persone dovranno quindi effettuare la profilassi con l’eparina, in alcuni casi prima del parto (ante partum), in altri dopo il parto (post partum).
Le donne che devono fare la profilassi prima del parto devono iniziarla precocemente nel primo trimestre, in quanto, come già detto, il rischio di trombosi è lo stesso in tutti e tre i trimestri.

In generale, le donne maggiormente a rischio di trombosi in gravidanza sono quelle che hanno avuto trombosi venose in passato, oppure quelle che sono affette da alcune mutazioni genetiche che le predispongono alla trombosi.
Altri fattori di rischio sono l’età maggiore di 35 anni, la nulliparità (cioè il non avere avuto parti precedenti), l’obesità, l’immobilizzazione prolungata e il fumo di sigaretta.

Anche in presenza di alcuni auto-anticorpi, cioè anticorpi diretti contro molecole normalmente presenti nell’organismo, c’è un maggior rischio di trombosi.
Gli anticorpi maggiormente responsabili di questo fenomeno sono il Lupus Anticoagulans e gli anticorpi anti-fosfolipidi.

Nel periodo dopo il parto, i principali fattori di rischio sono ancora l’immobilizzazione prolungata, l’ipertensione gravidica oppure l’essere state sottoposte ad interventi chirurgici, come il taglio cesareo.

Chi deve fare la profilassi

La società Americana di Ematologia ha prodotto nel 2018 delle linee guida che sintetizzano le evidenze più recenti della letteratura, fornendo delle indicazioni ai medici su chi sottoporre a profilassi per prevenire la trombosi in gravidanza.
Ricordo che le linee guida forniscono dei livelli di evidenza per una data terapia e non rappresentano la verità assoluta, ma piuttosto una rotta da seguire per il medico quando deve dare indicazioni alle pazienti.

Per quanto riguarda la trombosi in gravidanza, queste linee guida ci dicono che la necessità di profilassi con l’eparina si basa sulla presenza o meno di fattori di rischio acquisiti oppure genetici; vediamoli nello specifico.

Fattori acquisiti e trombosi in gravidanza

Le donne che hanno avuto precedenti trombosi venose spontanee oppure provocate da fattori di rischio ormonali, come ad esempio l’assunzione di pillola anticoncezionale, dovrebbero sottoporsi alla profilassi prima del parto.
D’altro canto, le donne che hanno avuto precedenti trombosi ma secondarie a fattori di rischio non ormonali, non dovrebbero sottoporsi a tale profilassi.

Entrambe queste categorie di donne, cioè che hanno avuto precedenti trombosi venose, dovrebbero però sottoporsi alla profilassi post partum.

Fattori genetici e trombosi in gravidanza

Ci sono diverse mutazioni genetiche che predispongono alla trombosi venosa, e in gravidanza la percentuale di rischio aumenta ulteriormente.
Infatti, il 50% circa delle trombosi in gravidanza è legato a predisposizione genetica ereditaria.

Queste mutazioni colpiscono dei geni relativi a proteine coinvolte nella coagulazione del sangue; le forme mutate facilitano maggiormente la coagulazione del sangue rispetto alle forme normali.
Esistono forme eterozigoti, cioè con un gene sano e uno mutato, e forme omozigoti, più pericolose in quanto entrambi i geni sono mutati.

Fattore di Leiden

Rappresenta la mutazione più frequente nella popolazione europea e asiatica, e riguarda la quinta proteina della cascata coagulativa.

Forma eterozigote – non è necessaria la profilassi ante partum, indipendentemente dalla storia di trombosi all’interno della famiglia della paziente, sempre se la paziente non ha avuto precedenti trombosi.
Anche la profilassi post partum non sembrerebbe consigliata.
Forma omozigote – è consigliata la profilassi sia in gravidanza che nel post partum, indipendentemente dalla storia familiare di trombosi.

Mutazione della protrombina (G20210A)

Questa mutazione fa aumentare i livelli nel sangue di protrombina, una delle ultime proteine coinvolte nel processo coagulativo.

Forma eterozigote – indipendentemente dalla storia familiare di trombosi, non è indicata la profilassi prima e dopo il parto.
Forma omozigote – in assenza di storia familiare di trombosi non è indicata la profilassi ante partum; è generalmente indicata la profilassi post partum.

Deficit di proteina C o proteina S

Si tratta di due proteine che regolano la coagulazione del sangue, evitando che si attivi eccessivamente.
La mutazione le rende presenti in minore concentrazione del normale, favorendo quindi la coagulazione e il rischio di trombosi.

In presenza di mutazione di queste proteine, la profilassi ante partum non è indicata, mentre la profilassi post partum è indicata solo se c’è una storia familiare di trombosi.

Deficit di antitrombina III

Anche questa glicoproteina controlla la coagulazione del sangue, evitando che si attivi troppo; la mutazione la rende carente nella sua forma attiva, predisponendo alla trombosi.

In assenza di storia familiare di trombosi, non è consigliata la profilassi ante partum e post partum, mentre se la storia familiare è positiva la profilassi andrebbe fatta sia prima che dopo il parto.

Conclusioni

Le donne in gravidanza dovrebbero conoscere la trombosi in gravidanza e sapere qual è il loro livello di rischio.
In presenza di mutazioni genetiche o di fattori di rischio acquisiti, la figura di riferimento per le indicazioni sulla profilassi e la terapia dovrebbe essere l’ematologo.

Se durante la gravidanza compaiono delle vene varicose nelle gambe oppure si manifestano dolori o gonfiori, bisogna consultare un angiologo ed effettuare una visita comprensiva di ecodoppler; in questo modo si potrà conoscere la propria situazione vascolare e prevenire eventualmente una trombosi, utilizzando, ad esempio, una calza elastica adeguata.

Ancora una volta, chi è ben informato previene il problema, e lo cura più efficacemente nel caso dovesse verificarsi.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5778511/pdf/cdt-07-S3-S309.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6258928/pdf/advances024802CG.pdf

Le ulcere alle gambe richiedono uno specialista competente

Ulcere alle gambe: quando il problema è vascolare

La presenza di ulcere alle gambe è un problema grave che interessa fino all’1,5% della popolazione, anche se man mano che si avanza con l’età aumenta il numero di persone affette.
Le ulcere alle gambe comportano un peggioramento della qualità di vita della persona, sia per il dolore che provocano sia per lo stress dovuto alla limitazione nei movimenti, nella vita sociale e nell’igiene personale.

Indubbiamente, la maggior parte delle ulcere alle gambe è dovuta a problemi di circolazione.
A volte, però, le ulcere hanno cause meno comuni, e ciò rende difficile identificarne il problema alla base; inoltre, spesso non si trova lo specialista giusto che possa risolverlo.

Molti di noi potrebbero avere un genitore anziano o un nonno che soffre di questo problema. Conoscere le cause delle ulcere alle gambe, oltre che ciò che le differenzia tra di loro, è utile per orientarsi su come gestirle e a chi rivolgersi.

Cosa sono le ulcere alle gambe e come guariscono

Le ulcere alle gambe sono delle lesioni della barriera cutanea con perdita di sostanza; presentano sempre una esposizione del derma, cioè lo strato di tessuto sotto l’epidermide, e a volte anche di strutture più profonde come muscoli e tendini.
Le ulcere alle gambe si definiscono croniche quando sono presenti da almeno 6 settimane e non mostrano tendenza alla guarigione per un periodo di almeno 3 mesi.

Generalmente, le ulcere alle gambe guariscono attraverso tre fasi di durata diversa.
Nella fase infiammatoria, lo stimolo lesivo attiva nell’organismo la risposta infiammatoria, un esercito di molecole e cellule che, in modo aspecifico, tenta di distruggere l’elemento che ha avviato il danno.
La stessa infiammazione, però, con il tempo danneggia anche i tessuti dell’organismo stesso, favorendo la permanenza dell’ulcera.

Alla fase infiammatoria segue la fase proliferativa, che dura fino ad un mese e che è caratterizzata dalla formazione di nuovi tessuti e vasi sanguigni, che coprono l’ulcera fino a farla guarire.
Nella successiva fase di rimodellamento, che durerà fino ad un anno, i tessuti generati per guarire vengono ristrutturati e riorganizzati, sostituendo progressivamente le cellule con matrice fibrosa.

Le ulcere croniche rimangono bloccate nel passaggio tra la fase infiammatoria e quella proliferativa, almeno fino a che non ne viene rimossa la causa.
Naturalmente, essendo compromessa la funzione di barriera della cute, possono crescere batteri e svilupparsi infezioni, che complicano ulteriormente il decorso della lesione.

Cause vascolari delle ulcere alle gambe

Le ulcere alle gambe sono causate nell’80% dei casi da problemi vascolari.
Si tratta per lo più di alterazioni della circolazione venosa, legate cioè a ristagno di sangue dovuto a reflusso nelle vene oppure esiti di trombosi importanti.

Negli altri casi parliamo di ulcere arteriose, cioè dovute a ostruzione delle arterie, oppure di ulcere diabetiche, quando questa malattia colpisce i vasi e i nervi compromettendo la vitalità dei tessuti.

C’è da ricordare che spesso, soprattutto negli anziani, sono presenti più cause in uno stesso paziente che concorrono allo sviluppo dell’ulcera; si parla in questo caso di ulcere miste.

Ulcere venose

Le ulcere venose sono le più frequenti tra quelle legate a problemi di circolazione.
Il problema alla base è l’insufficienza venosa, una malattia che causa la progressiva perdita di funzione drenante delle vene delle gambe e che con il tempo causa un ristagno di sangue nelle parti più declivi, tipicamente alle caviglie.

Il sangue fermo attiva le cellule dei capillari sanguigni che diventano più permeabili, provocando in questo modo un accumulo di liquidi e cellule nei tessuti extracellulari. Inoltre, viene attivata la risposta infiammatoria che, cronicizzandosi, distrugge gli stessi tessuti causando la formazione dell’ulcera.

Le ulcere alle gambe possono essere causate da insufficienza venosa

Come riconoscerle?
Le ulcere venose si localizzano tipicamente alle caviglie, soprattutto al malleolo interno, sono abbastanza superficiali e possono produrre molto liquido a causa del concomitante edema alla gamba.
Infatti, le ulcere venose si accompagnano spesso ad una gamba gonfia e alla presenza di macchie scure alle caviglie, che sono altri segni dovuti all’insufficienza venosa.

Il trattamento delle ulcere venose prevede una corretta terapia compressiva e farmacologica, oltre che il trattamento del problema venoso che l’ha provocata; bisogna rivolgersi ad un medico specialista nell’ambito flebologico.

Ulcere arteriose

Le ulcere arteriose sono causate dalla diminuzione del flusso di sangue proveniente dalle arterie, quando queste sono ristrette oppure ostruite a causa dell’aterosclerosi.
L’aterosclerosi colpisce la parete delle arterie determinando lo sviluppo di placche aterosclerotiche, delle masse solide o semi-liquide che crescono progressivamente ostruendo il vaso oppure causando la partenza di emboli, cioè frammenti solidi che, seguendo il flusso del sangue, chiudono i vasi più piccoli a valle.

Le ulcere arteriose sono molto dolorose e si localizzano tipicamente alle estremità del piede, anche se possono avere una localizzazione variabile, in particolare sulle prominenze ossee. Si possono riconoscere per la presenza di tessuto necrotico, cioè nerastro e devitalizzato, e per la scarsa produzione di liquido.

Il primo passo per la guarigione delle ulcere arteriose è quello di pianificare un intervento per aumentare l’apporto di sangue; non bisogna assolutamente grattare o incidere queste ulcere, in quanto il trauma peggiorerebbe il danno e l’ulcera potrebbe ingrandirsi ulterioremente.
In questi casi bisogna rivolgersi al chirurgo vascolare.

Ulcere diabetiche

Il diabete è una malattia insidiosa che, attraverso meccanismi legati all’aumento degli zuccheri nel sangue, causa un danno alla microcircolazione della cute, di alcuni organi e dei nervi; una regione particolarmente colpita è proprio il piede.

Anche se lo sviluppo di ulcere alle gambe nel diabete può essere dovuto a problemi di circolazione, nella maggior parte dei casi il problema alla base è la neuropatia diabetica.
Si tratta di una progressiva degenerazione dei nervi periferici che comporta la perdita della sensibilità, di parte del movimento muscolare e del corretto funzionamento di ghiandole cutanee e vasi sanguigni.

Le ulcere alle gambe possono essere causate dal diabete

In presenza di neuropatia diabetica il paziente non avverte il dolore, le vibrazioni, la pressione e la temperatura. Di conseguenza, traumi anche banali come tagliarsi le unghie o esercitare piccole pressioni ripetute possono causare la formazione di ulcere, tipicamente alla pianta del piede o alle dita.
Oltretutto, la neuropatia compromette la secrezione di sudore ed il normale trofismo della pelle, aggravando così la situazione e favorendo lo sviluppo di infezioni, già facilitate dal diabete stesso.

Le ulcere diabetiche si riconoscono per l’aspetto circolare, sono circondate da pelle più spessa del normale e si localizzano alla pianta del piede nelle zone sottoposte a pressione, diventando spesso penetranti.
La prima cosa da fare per trattarle correttamente è alleviare lo stimolo pressorio.

A chi rivolgersi? In questi casi il diabetologo e il chirurgo vascolare dovrebbero lavorare in sinergia.

Ulcere vascolari meno frequenti

Alcune malattie vascolari più rare possono causare la formazione di ulcere alle gambe; si tratta di condizioni poco conosciute e a volte difficili da riconoscere.

Malattia di Buerger

Questa patologia provoca l’ostruzione di arterie e vene di piccolo e medio calibro, soprattutto a livello degli arti inferiori dove possono svilupparsi delle ulcere molto dolorose.
La malattia colpisce tipicamente i soggetti fumatori di sesso maschile, di età relativamente giovane (di solito sotto i 50 anni).

L’aspetto caratteristico di questa patologia è che, a differenza dell’aterosclerosi, non colpisce la parete dei vasi ma causa una coagulazione del sangue al loro interno; il risultato è comunque un arresto della circolazione periferica.
Le ulcere alle gambe, in questa malattia, sono molto dolorose, e se non cessa l’abitudine al fumo possono ingrandirsi velocemente rendendo necessaria l’amputazione.

Lo specialista di riferimento è l’angiologo o il chirurgo vascolare.

Emboli di colesterolo

A volte le ulcere alle gambe sono causate dal distacco di frammenti di colesterolo dalle placche aterosclerotiche; seguendo il flusso del sangue, questi frustoli finiscono nei vasi più piccoli sotto la cute e li occludono.
Questo problema colpisce soprattutto i maschi affetti da aterosclerosi, e può verificarsi più facilmente se le placche aterosclerotiche vengono manipolate in corso di altre procedure mediche.

Gli emboli di colesterolo possono causare la formazione di ulcere oppure, più tipicamente, mandano in sofferenza un dito del piede, che diventa dapprima bluastro e poi nero, a causa della sopraggiunta necrosi.
Il trattamento deve essere tempestivo e volto ad eliminare la placca aterosclerotica attraverso una procedura di chirurgia vascolare.

Calcifilassi

Questa patologia colpisce le persone con insufficienza renale terminale e diabete di lunga durata, quando il calcio si deposita in modo anomalo ed eccessivo nelle pareti delle piccole arterie cutanee.
I quadri clinici sono molto gravi, in quanto si sviluppano ulcere necrotiche molto dolenti e spesso difficili da trattare; anche la malattia di base compromette di per sé la prognosi.

Il trattamento in genere è poco efficace, perché non si riesce a ristabilire una circolazione di sangue efficace e duratura.

Atrofia bianca o vasculopatia livedoide

La vasculopatia livedoide è una malattia abbastanza rara che colpisce i piccoli vasi sanguigni determinando la comparsa di ulcere ricorrenti, che spesso guariscono lasciando una cicatrice bianca di forma stellata.
Questa condizione colpisce di più le donne, e le ulcere si localizzando di solito in entrambi gli arti a livello delle caviglie.

Tra le ulcere alle gambe possiamo riscontrare la vasculopatia livedoide

In un terzo dei casi non si trova una causa; nei rimanenti, si è osservata una associazione con malattie autoimmuni o alterazioni della coagulazione del sangue.

Ulcera di Martorell

Si tratta di una lesione rara, che colpisce tipicamente le donne affette da forme particolarmente gravi di ipertensione arteriosa, quando i vasi cutanei sono talmente irrigiditi da compromettere l’apporto di sangue ai tessuti.

Sono ulcere molto dolorose, con dei bordi netti e rilevati, localizzate tipicamente nella parte laterale o posteriore della gamba.
In presenza di ulcera di Martorell, le arterie sono pervie e non ci sono segni di insufficienza venosa.

La terapia prevede innanzitutto il controllo della pressione del sangue. Le ulcere piccole possono guarire con medicazioni adeguate, mentre quelle più grandi vanno coperti con innesti di pelle.

Conclusioni

La gran parte delle ulcere alle gambe è causata da problemi di circolazione.
Conoscere le cause di questo problema ci può aiutare a scegliere lo specialista più adatto e ad effettuare una prima gestione delle lesioni.

Come anticipato, a volte le ulcere sono causate da altre patologie che non hanno a che fare con un problema primario di circolazione. In un prossimo articolo analizzeremo queste cause meno frequenti ma comunque importanti da conoscere.

La ritenzione idrica può essere contrastata con una corretta integrazione

Ritenzione idrica nelle gambe: quali rimedi?

La presenza di ritenzione idrica nelle gambe viene lamentata da molte donne, soprattutto nel periodo primaverile ed estivo, è fonte di disagio ed è difficile da contrastare.
Si tratta sostanzialmente della percezione o sensazione di gonfiore localizzata alle caviglie, ai piedi, alle gambe o a volte alle cosce; naturalmente il gonfiore è frequentemente anche oggettivo.

Questo problema può accompagnarsi a dolori crampiformi o senso di pesantezza alle gambe, oppure a bruciore e indolenzimento.
Le cause di questa condizione sono difficilmente riconducibili ad un unico fattore, in quanto si tratta per lo più di forme miste dovute a predisposizione genetica e azione degli ormoni estrogeni.

Cause della ritenzione idrica

Con il termine ritenzione idrica si intende una generica tendenza a trattenere liquidi all’interno dell’organismo.
La ritenzione idrica propriamente detta dovrebbe accompagnarsi ad un aumento del peso corporeo o del volume degli arti, oppure presentarsi sotto forma di edema alla gamba, quando la pressione delle dita lascia un’impronta (il cosiddetto segno della “fovea”).

Il problema a cui ci riferiamo nello specifico, invece, a che fare con ristagno di acqua e linfa nella rete di tessuto connettivo che si trova nel contesto del grasso sottocutaneo degli arti inferiori.

La ritenzione idrica spesso si accompagna a dolore e pesantezza alle gambe

Perché succede questo?
Acqua e molecole filtrano regolarmente dai capillari sanguigni ai tessuti dove portano ossigeno e nutrimento, per poi essere raccolte dai capillari linfatici.
In alcune condizioni come la cellulite, oppure negli stadi iniziali del lipedema, c’è invece una tendenza intrinseca dei capillari ad essere più permeabili del normale, il che risulta in un accumulo di liquidi nei setti di connettivo che accolgono gli stessi capillari.
Questo processo a sua volta causa la ritenzione idrica.

Inoltre, quando la temperatura esterna aumenta, e le vene diminuiscono la loro attività per disperdere calore, questo meccanismo vizioso può essere indirettamente favorito.
Il ristagno di sangue dovuto ad ipotonia venosa e reflusso è alla base dell’edema che si forma nell’insufficienza venosa, ed è noto che la cellulite e la stessa insufficienza venosa vanno frequentemente di pari passo, sotto l’azione degli ormoni femminili.

Quali sostanze possono contrastare la ritenzione idrica?

Per combattere la ritenzione idrica nelle gambe servono delle sostanze che regolino la permeabilità dei capillari, possibilmente migliorino il tono venoso, cioè l’attività propulsiva delle vene, e “aggiustino” il funzionamento dei capillari linfatici.
Queste sostanze dovrebbero anche contrastare l’infiammazione e il danno ossidativo, perché quando i capillari filtrano di più attivano anche la risposta infiammatoria, tanto è vero che insufficienza venosa e cellulite si associano nel lungo termine ad infiammazione nella matrice extracellulare e fibrosi.

Premesso che è fondamentale idratarsi abbondantemente, non esiste un rimedio che cambi la situazione in modo fulmineo, anche perché la problematica è subdola e i meccanismi che la regolano rappresentano un bersaglio eterogeneo, difficile da colpire.
Abbiamo però a disposizione delle molecole, per lo più naturali, che hanno una azione flebotonica, cioè supportano la microcircolazione ed il funzionamento il sistema veno-linfatico, aiutandoci a contrastare il problema.

Conoscerle fornisce degli strumenti in più che si possono sfruttare.

Ruscus

Il Ruscus Aculeatus è una pianta cespugliosa sempreverde che produce delle grosse bacche rosse e forma delle foglie pungenti, per questo si chiama anche “pungitopo”.
L’estratto delle sue radici contiene delle sostanze chiamate saponine; esse hanno una nota funzione di supporto del sistema venoso, sono antiossidanti, cioè proteggono le cellule dai danni chimici, e hanno una azione diuretica.

La ritenzione idrica può essere contrastata con il Ruscus

Il meccanismo di azione dell’estratto di Ruscus sulla ritenzione idrica è legato all’azione dell’adrenalina e della noradrenalina sulle pareti delle vene.
Queste molecole stimolano le cellule muscolari dei vasi a contrarsi per far progredire il sangue, ed il Ruscus ne potenzia l’azione a livello recoettoriale, favorendo anche il rilascio in quantità maggiore della sostanza.
In questo modo, l’aumento del flusso capillare andrà di pari passo con una minore permeabilità, e quindi contrasterà la ritenzione idrica.

Negli studi sugli animali, il Ruscus ha mostrato un effetto dose-dipendente di aumento della contrazione delle vene e dei vasi linfatici, aumento della resistenza dei capillari e diminuzione della loro permeabilità, oltre che di contrasto all’azione infiammatoria dei globuli bianchi.
Nell’uomo, vari studi hanno analizzato questa sostanza in persone con insufficienza venosa, sia in forme lievi con presenza di soli capillari, sia in forme gravi con gonfiori importanti, ulcere ed esiti di trombosi.

Il Ruscus mostra un’alta efficacia sia nella riduzione dei sintomi come pesantezza, dolore, crampi, fatica e formicolio, sia nel contrasto alla ritenzione idrica, misurata quantitativamente come diminuzione della circonferenza alla caviglia e diminuzione del volume dell’arto.
Un fatto interessante è che nella popolazione studiata c’erano soggetti con capillari visibili sulle gambe e sintomi come pesantezza e gonfiore, cioè persone, per lo più di sesso femminile, molto rappresentative del problema di cui parliamo.

Negli studi analizzati, il Ruscus è stato somministrato per tre mesi in associazione con Esperidina, una sostanza flavonoide naturale, e in alcuni casi con Vitamina C.
L’associazione di 150 mg di Ruscus + 1 g di Vitamina C al giorno è un valido rimedio per contrastare la ritenzione idrica.

Escina

L’escina è un’altra sostanza appartenente alla categoria delle saponine; la troviamo nell’estratto dei semi di ippocastano.
Questa molecola contrasta l’infiammazione e riduce la permeabilità dei capillari, agendo quindi in opposizione ai meccanismi che determinano la ritenzione idrica. Inoltre, ha una azione protettiva proprio sulle cellule dei capillari sanguigni.

La ritenzione idrica può essere contrastata con l'escina

L’escina aumenta direttamente anche il tono venoso. Uno studio effettuato su vene safene prelevate chirurgicamente, tuttavia, ha mostrato che funziona poco o nulla se il vaso è molto tortuoso, quindi si può ipotizzare una sua maggiore efficacia negli stadi inziali dell’insufficienza venosa, quando ancora non si sono sviluppate vene varicose.

Per quanto riguarda la letteratura scientifica disponibile, la gran parte degli studi è stata effettuata in soggetti con insufficienza venosa.
L’escina si è mostrata efficace miglioramento di sintomi come il senso di gonfiore, mentre nella sindrome post trombotica non vi è ancora evidenza di una sua azione positiva in termini di prevenzione e trattamento.
La dose somministrata è stata di 40 mg per bocca per 21-25 giorni. Il dosaggio generalmente consigliato, tuttavia, è di 100 mg al giorno; va prestata attenzione se si soffre di patologie al fegato o di insufficienza renale.

Infine, anche sotto forma di gel l’escina si è mostrata efficace, questa volta nel migliorare gli edemi post traumatici (distorsioni, contusioni) ma anche il gonfiore legato all’insufficienza venosa.
Il dosaggio testato è stato di due applicazioni al giorno per tre settimane.

Rutina

La rutina è una sostanza appartenente alla categoria dei flavonoli, la troviamo nella pianta denominata Ruta Glaveolens ma soprattutto in alcuni alimenti come il grano saraceno, il , la passiflora e la mela.

Il primo aspetto interessante della rutina è legato ad un suo componente, la quercetina, che peraltro è presente nelle foglie di ibisco o karkadè, oltre che nello stesso ippocastano, nella calendula, nel biancospino, nella camomilla e nel Gingko Biloba.

La ritenzione idrica può essere contrastata con la quercetina
Tra gli alimenti, quelli particolarmente ricchi di quercetina sono il cappero, il levistico, l’uva rossa e il vino rosso, la cipolla rossa, il tè verde, il mirtillo, la mela, la propoli e il sedano.

Questa molecola determina una vasodilatazione a livello renale, che a sua volta aumenta la filtrazione di liquidi in questo organo favorendo una azione diuretica.
La quercetina, quindi, è un ottimo integratore per contrastare la ritenzione idrica, e si mostra efficace anche nel ridurre il senso di affaticamento che spesso si percepisce nel periodo primaverile ed estivo.
Il dosaggio non dovrebbe essere superiore a 300 mg al giorno.

Tornando alla rutina, ricordo che ha una potente azione antinfiammatoria e anti-proliferativa, e per questo è stata ampiamente studiata nei tumori e nelle malattie neuro-degenerative.

Centella asiatica

La Centella Asiatica è una pianta tipicamente presente in India e in altri paesi dell’Asia, la si trova ad altitudini montane e per secoli è stata usata come erba medicinale, per migliorare la memoria e il tono dell’umore.
Inoltre, è antiossidante e contribuisce a migliorare il controllo della pressione arteriosa.

La ritenzione idrica può essere contrastata con la centella asiatica

Le sostanze attive contenute nella Centella Asiatica sono anche in questo caso appartenenti alla categoria delle saponine.
Esse agiscono specificamente sul tessuto connettivo che costituisce le pareti delle vene, regolando la produzione delle molecole strutturali che lo compongono.
In particolare, l’azione si focalizza sulla sintesi di collagene, una delle sostanze cardine del tessuto connettivo stesso e che, tra l’altro, serve per la cicatrizzazione delle lesioni cutanee.
Studi su modelli animali, infatti, hanno mostrato che la Centella Asiatica velocizza la guarigione delle ferite.

In termini di ritenzione idrica, studi “in vivo” hanno mostrato un’azione protettiva della Centella Asiatica sui vasi capillari, una regolazione della loro permeabilità e un effetto antiossidante.
Nell’uomo si è osservata una riduzione della circonferenza alla caviglia, del gonfiore e del tasso di filtrazione capillare in soggetti che hanno assunto gli estratti di Centella Asiatica per 4-8 settimane. Il miglioramento è stato ottenuto anche nei sintomi soggettivi come gonfiore e pesantezza.

In queste ricerche, però, i parametri usati per definire la ritenzione idrica sono stati eterogenei, in alcuni casi quantitativi, in altri qualitativi. Oltretutto, si analizzavano soggetti con vari livelli di gravità di insufficienza venosa insieme a soggetti sani.
Queste distorsioni statistiche hanno portato a definire non ancora comprovato l’effetto della Centella Asiatica, almeno dal punto di vista strettamente scientifico.

Basandoci sull’esperienza clinica, possiamo tuttavia sfruttare le proprietà, comunque esistenti, di questa sostanza, nella dose di 60 mg da una a tre volte al giorno, per 4-6 settimane.
Bisognerebbe evitare di assumere contestualmente farmaci sedativi, perché sommerebbero la loro azione a quella della Centella, già di per sé tranquillante.

Conclusioni e consigli

Il problema della ritenzione idrica è complesso. Essa può essere ricondotta ad insufficienza venosa di tipo funzionale o a stasi linfatica, presente in alcuni stadi della cellulite e del lipedema.
Il comune denominatore sembra essere rappresentato dagli ormoni estrogeni, che agiscono sulla redistribuzione del grasso corporeo e sull’attività propulsiva delle vene e dei vasi linfatici.

Ci sono diverse sostanze che contrastano la ritenzione idrica, molte delle quali con una azione notoriamente efficace nella pratica clinica.
Secondo la letteratura più recente, mancano delle evidenze soprattutto per quanto riguarda la Centella Asiatica, a causa di fattori statistici che rendono necessarie delle ricerche più ampie e con parametri più rigidi.
Per il resto, una corretta integrazione può giocare il suo ruolo nel combattere questo problema.

Va ricordato che è importante limitare il consumo di sale e bere molto, per idratare adeguatamente la matrice extracellulare. In caso di ritenzione idrica questo tessuto è, in apparenza paradossalmente, disidratato, perchè il ristagno di liquidi si accompagna anche ad accumulo di molecole e cellule nello spazio extracellulare, rendendo questo fluido linfatico più denso del normale.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6776292/pdf/dddt-13-3425.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5355559/pdf/main.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3116297/?report=printable

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3594936/pdf/ECAM2013-627182.pdf

https://www.minervamedica.it/it/riviste/international-angiology/articolo.php?cod=R34Y2017N02A0093

http://www.sicve.it/wp-content/uploads/2016/10/Flebologia-LG-SICVE-SIF.pdf

gambe pesanti e doloranti

Rimedi per le gambe pesanti e doloranti

La presenza di gambe pesanti e doloranti è tipica del periodo primaverile/estivo e spesso si accompagna a crampi e sensazione di gonfiore. Il problema interessa soprattutto le donne, in particolare se svolgono un lavoro sedentario o se passano molte ore ferme in piedi, anche a causa del fattore ormonale legato all’azione degli estrogeni.

Questi spiacevoli disturbi possono comparire durante la giornata ma soprattutto alla sera, o in alcuni casi vengono avvertiti costantemente. Oltre alla sensazione di gambe pesanti e doloranti, si avvertono crampi, stanchezza e senso di gonfiore, che destano a volte preoccupazione in quanto fanno pensare a una trombosi o comunque a possibili eventi gravi.

Perché le gambe sono pesanti e doloranti?

La sensazione di gambe pesanti e doloranti è un sintomo tipico dell’insufficienza venosa, una patologia causata dalla progressiva perdita di funzione drenante delle vene delle gambe, che tendono a dilatarsi progressivamente alimentando il reflusso del sangue, anche a causa della perdita di continenza delle valvole venose.

Quando le vene si sfiancano, il sangue tende a ristagnare nei punti più declivi della gamba.
Questo provoca da un lato l’esordio di sintomi come dolore, pesantezza alle gambe, crampi o anche prurito, dall’altro un aumento della permeabilità dei vasi capillari e l’attivazione delle cellule del sangue, con il risultato che i liquidi fuoriescono nei tessuti generando gonfiore e infiammazione.

Anche le persone sane o con forme di insufficienza venosa solo funzionale possono avvertire gambe pesanti e doloranti in questo periodo, perché l’aumento della temperatura esterna causa una dilatazione delle vene che serve a smaltire il calore, ma che dall’altra parte è responsabile dei disturbi.
Le donne risentono maggiormente di questi problemi perché gli ormoni estrogeni diminuiscono a loro volta il tono venoso, per cui la comparsa di disturbi è frequente nelle diverse fasi del ciclo mestruale o in caso di assunzione di alcune tipologie di terapia ormonale o contraccettiva.

Quali sono i rimedi per le gambe pesanti e doloranti?

Le sostanze venoattive o flebotoniche sono un gruppo eterogeneo di molecole che hanno una azione importantissima sul sistema venoso e sul microcircolo.
Queste sostanze hanno un’origine per lo più vegetale, infatti sono state largamente usate in passato come erbe medicinali e oggi vengono estratte dalle piante o in parte sintetizzate, quindi è possibile trovarle in alcuni alimenti ma più spesso si assumono sotto forma di integratori.

Le sostanze venoattive, tralasciando la loro classificazione che potrebbe risultare noiosa, hanno numerosi effetti positivi in comune.
Per prima cosa aumentano il tono venoso, cioè agiscono sulla parete delle vene migliorandone la contrazione e favorendo quindi il drenaggio di sangue.
Hanno anche una potente azione antiossidante, cioè proteggono le cellule delle vene e dei capillari dallo stress indotto dal ristagno di sangue e dallo stravaso di liquidi, e per questo sono state studiate anche nelle neoplasie.
Agiscono contrastando l’infiammazione, che si attiva a causa del ristagno di sangue proprio per l’attivazione di cellule come i leucociti e i monociti/macrofagi, che con il tempo si rendono responsabili dei danni nei tessuti extra-vasali.
Inoltre, riducono la permeabilità dei capillari e quindi contrastano il gonfiore e l’edema che possono svilupparsi a causa della stasi di sangue, e regolano la densità del sangue stesso evitando l’aggregazione tra le sue cellule il che favorirebbe l’attivazione infiammatoria e della coagulazione.

Cosa sono i flavonoidi?

gambe pesanti e doloranti

L’elenco delle sostanze venoattive è molto lungo, ma in questa sede ci soffermeremo sui flavonoidi ed in particolare sulla frazione flavonoide.

I flavonoidi sono dei metaboliti delle piante che appartengono alla famiglia dei polifenoli; generalmente costituiscono i pigmenti delle piante stesse e si trovano soprattutto nei loro frutti e nelle foglie, ma a volte anche nelle radici come nel caso del Ruscus.
Tra i flavonoidi ricordiamo due categorie di sostanze molto attive sulle vene e sui capillari, ma che condividono anche le proprietà antiossidanti che abbiamo visto nelle sostanze venoattive: gli antociani e le proantocianidine.

Gli antociani sono responsabili dei colori rosso, blu e violetto dei frutti e delle bacche che li contengono, come ad esempio il ribes, la ciliegia, il cavolo rosso, l’uva rossa, la fragola, il sambuco e le bacche in generale L’alimento che contiene più antociani in assoluto è l’aronia, una pianta dalle bacche molto aspre.
Anche le proantocianidine si trovano all’interno di frutti rossi come mirtilli e uva rossa, ma anche nel tè verde e nel cacao.

Una sostanza molto importante appartenente alla categoria dei flavonoidi e largamente utilizzata è la frazione flavonoide (detta anche frazione flavonoide purificata micronizzata o più semplicemente FFPM), un composto semisintetico costituito per il 90% da diosmina e per il 10% da flavonoidi.
La diosmina non è altro che una molecola semisintetica con una potente azione di supporto del sistema venoso, e deriva da un flavonoide naturale, l’esperidina.

Come funziona la frazione flavonoide?

La frazione flavonoide aumenta il tono venoso agendo sui segnali nervosi che regolano la contrazione delle cellule muscolari, situate nella parete delle vene e responsabili della loro capacità propulsiva.
Questo avviene grazie all’aumento che questa sostanza esercita sulla concentrazione di noradrenalina, che è la molecola che stimola la contrazione di queste cellule favorendo così il flusso di sangue.

Gli effetti benefici della frazione flavonoide sono stati indagati da numerosi e vasti studi scientifici, confermati anche da recenti revisioni della letteratura.
Un primo dato interessante è emerso da studi effettuati su una popolazione di soggetti sani con sintomi come pesantezza e dolore alle gambe, associati alla presenza di capillari; come abbiamo già detto si tratta di un problema tipico delle donne, maggiormente soggette a questi disturbi per i fattori ormonali legati al ciclo o alla terapia contraccettiva.

In queste persone, la presenza di capillari visibili era accompagnata anche dal riscontro di reflusso sulla vena grande safena, evidenziato alla fine della giornata lavorativa e tipicamente nel contesto di attività sedentarie o in cui veniva mantenuta la stazione eretta per molte ore.
La presenza di reflusso a fine giornata, pur essendo da considerare un fatto ancora fisiologico, potrebbe evolvere col tempo nello sviluppo di vene varicose superficiali, sovraccaricate dal protrarsi del ristagno di sangue.

La somministrazione di un grammo al giorno di frazione flavonoide per tre mesi ha migliorato nettamente i sintomi, il discomfort e la qualità di vita dei soggetti indagati, e si è anche osservata una scomparsa del reflusso precedentemente osservato.
Questo dato è importante perché mostra che il trattamento con flavonoidi è anche in grado di rallentare l’evoluzione dell’insufficienza venosa, e possono trarne beneficio anche le persone già affette da questa malattia nelle sue diverse fasi.

Naturalmente, l’assunzione di flavonoidi non fa scomparire i capillari, che sono la sede di micro reflussi superficiali e rappresentano uno stadio iniziale dell’insufficienza venosa; in questo caso bisognerà sottoporsi ad un trattamento di scleroterapia per avere il risultato auspicato.

La FFPM ha un altro effetto importante, cioè riduce la permeabilità dei vasi capillari contrastando il gonfiore alle gambe, un’altra conseguenza dell’insufficienza venosa o anche del mantenere per molte ore la posizione eretta.
Infine, la frazione flavonoide accelera anche la guarigione delle ulcere venose, che rappresentano lo stadio più grave dell’insufficienza venosa; questa proprietà è legata all’azione antinfiammatoria della sostanza oltre che di riduzione della permeabilità dei capillari e di miglioramento del flusso sanguigno.

Consigli

In conclusione, raccomando spesso di assumere questa molecola per almeno un mese, ma meglio se per tre mesi, con il dosaggio di un grammo al giorno.
La frazione flavonoide, infatti, si è dimostrata tra le sostanze più efficaci nel ridurre la sensazione di gambe pesanti e doloranti, oltre che migliorare la qualità di vita anche in soggetti sani che soffrono di questa problematica a causa di fattori costituzionali o legati allo stile di vita.
Non ci sono particolari controindicazioni alla sua somministrazione, ma è meglio non assumerlo durante la gravidanza e l’allattamento in quanto non è stata dimostrata la sua sicurezza in queste situazioni.

In caso di gambe pesanti e doloranti, tuttavia, credo sia opportuno effettuare anche una visita specialistica per diagnosticare una eventuale insufficienza venosa e pianificare, in questo caso, il giusto iter terapeutico.

Fonti

https://www.minervamedica.it/it/getfreepdf/DPtk5U3LFEImWyO0DnXZ%252BZlmkqp6b%252FX2OsmDZ%252BaUPELwx9hLcWYXyGSCMjffJ9s%252FCfxuDq%252BoWObQgJspWBo75w%253D%253D/R34Y2017N02A0189.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7004432/pdf/12325_2019_Article_1218.pdf

https://www.minervamedica.it/it/getfreepdf/62rK2LeaZadmZhf8lMJPNc5mCHoOlHcsY5Eip5EDZ8FMo6opInlSIXIpSHbtUaJ60L47poeHhRkpDysYV00cAw%253D%253D/R34Y2018N02A0143.pdf

http://www.sicve.it/wp-content/uploads/2016/10/Flebologia-LG-SICVE-SIF.pdf

gambe gonfie e doloranti

Come risolvere il problema delle gambe gonfie e doloranti a fine giornata

Problema

La sensazione di gambe gonfie e doloranti a fine giornata è molto frequente tra i soggetti che svolgono attività lavorativa, e interessa in genere di più le donne in quanto i sintomi sono aggravati dall’azione degli ormoni estrogeni.
Si tratta di un problema che colpisce le persone che stanno per molte ore ferme in piedi oppure sedute alla scrivania, e spesso il senso di pesantezza alle gambe accompagna i disturbi.

Inoltre, con i primi caldi primaverili questi sintomi peggiorano immancabilmente, e per molte donne inizia l’incubo della ricerca di rimedi efficaci.

Ma perché questi disturbi sono così difficili da controllare?
Direi che una delle risposte è che spesso ciò che potrebbe funzionare non piace o risulta fastidioso da utilizzare; mi riferisco alla calza elastocompressiva, e di seguito vedremo come possiamo sfruttarne alcune tipologie per stare meglio.

Gambe gonfie e doloranti: perché?

Il gonfiore e il senso di pesantezza dipendono dal ristagno di sangue nelle gambe e nelle caviglie, a sua volta dovuto alla posizione eretta o seduta mantenuta per molto tempo.
Questo può accadere anche in persone che hanno delle vene sane, soprattutto in presenza di aumento della temperatura esterna che provoca una ulteriore diminuzione del tono venoso aggravando la situazione.

Perché il sangue ristagna? A livello delle gambe, per poter tornare al cuore e proseguire il suo flusso, il sangue deve fluire contro gravità. Affinché questo accada, deve innescarsi il meccanismo di “pompa” dei muscoli del polpaccio, che spremono le vene facendo scorrere il sangue mentre camminiamo.

Il mantenimento prolungato della posizione eretta o seduta impedisce lo scarico di sangue, che di conseguenza ristagna facendo aumentare la pressione idrostatica all’interno dei vasi capillari. Se per di più fa caldo, le vene spingono di meno perché devono anche provvedere allo smaltimento del calore.
Il risultato è una fuoriuscita temporanea di liquidi nei tessuti che crea il gonfiore a fine giornata; questo accumulo di liquidi è naturalmente transitorio negli individui sani, e regredisce prontamente con il riposo o con l’elevazione delle gambe.
Si tratta del cosiddetto edema occupazionale.

Edema e gonfiore sono la stessa cosa?

L’edema è l’accumulo di liquido nello spazio extracellulare e si manifesta tipicamente con il segno della “fovea”: quando premiamo con un dito la cute della gamba per alcuni secondi rimane un’impronta che regredisce lentamente.
L’edema è causato da diverse malattie che, attraverso alcuni meccanismi, portano all’accumulo di liquidi; tra queste ricordiamo l’insufficienza renale, lo scompenso cardiaco e l’insufficienza venosa e linfatica. Per approfondire i meccanismi alla base dell’edema puoi dare un’occhiata qui.

Ci sono altre situazioni cliniche caratterizzate da edema, come la cellulite e il lipoedema, ma in questo caso la fovea è di solito assente perché siamo in presenza di un edema con caratteristiche diverse, maggiormente “duro” e associato ad alterazioni del tessuto adiposo.

Con il termine “gonfiore” indichiamo, invece, un aumento volumetrico dell’arto, reale o spesso solo percepito, che può essere causato da edema oppure da traumi, punture di insetto, infiammazione e molte altre situazioni, nelle quali peraltro può esserci un edema localizzato.
Generalmente in presenza di gambe gonfie e doloranti a fine giornata non vediamo il segno della fovea, perché l’accumulo di liquidi è talmente transitorio da non renderlo evidente. Come dimostrato da alcuni studi, tuttavia, si verifica un effettivo aumento volumetrico dell’arto.

Come funzionano le calze elastiche

gambe gonfie e doloranti

Le calze elastocompressive sono dei tutori che esercitano sull’arto una pressione esterna, che controbilancia in parte la pressione esercitata dal sangue in stazione eretta. La pressione del sangue, secondo la forza di gravità, è massima nelle parti più declivi della gamba e decresce verso l’alto.

Le calze elastocompressive, grazie al materiale elastico di cui sono composte, aiutano la pompa muscolare a svuotare il sangue ma agiscono anche a riposo, riducendo il diametro delle vene e favorendo in questo modo sia il flusso di sangue che il corretto funzionamento delle valvole.
Grazie a questi effetti, le calze aiutano a prevenire le trombosi e contrastano gli effetti dell’insufficienza venosa.

Quali sono i diversi tipi di calze elastiche? Ce ne sono molti, ma in questo articolo ci focalizzeremo su una prima distinzione tra calze a compressione graduata e calze a compressione progressiva.

Le calze a compressione graduata (GECS in inglese) esercitano una pressione massima alla caviglia e decrescente dal basso verso l’alto, in accordo con il principio secondo cui la pressione del sangue, in posizione eretta, è più alta nelle parti declivi.
Le GECS sono notoriamente difficili da indossare, anche se hanno solitamente dei dispositivi adiuvanti di serie per farle scorrere meglio. Inoltre, spesso sono mal tollerate da chi le indossa, ma è anche vero che molte volte sono prescritte erroneamente.

Un esempio di calza a compressione graduata è rappresentato dalle calze elastiche terapeutiche (CET), tutori certificati come aventi azione terapeutica e largamente usati nelle persone con problemi venosi.

Le calze a compressione progressiva (PECS in inglese), invece, esercitano una pressione massima al polpaccio e minore alla caviglia, con un gradiente pressorio che di conseguenza è invertito.
Il concetto alla base di questi dispositivi è che il polpaccio è la sede di maggior raccolta di sangue nella gamba, ed è anche il motore che lo pompa verso il cuore; pertanto, questi tutori esercitano una azione maggiormente focalizzata sulla pompa muscolare.

Le PECS sono più facili da indossare e generalmente più confortevoli soprattutto per praticare sport, ma il rischio è che, essendo invertito il gradiente pressorio, favoriscano uno svuotamento minore alle caviglie rispetto al resto della gamba.

Calze elastocompressive nell’edema occupazionale

Quale delle due calze è più appropriata per chi soffre di gambe gonfie e doloranti a fine giornata?
La questione è stata indagata da alcuni studi scientifici recenti.

In merito al problema delle gambe gonfie e doloranti a fine giornata, uno studio italo-austriaco del 2013 ha indagato soggetti sani che svolgevano attività lavorativa in stazione eretta prolungata o seduta. Il risultato è stato che, al termine della giornata lavorativa, le PECS si sono mostrate più efficaci delle GECS nel ridurre l’edema inteso come volume totale della gamba.

Le gambe si sono sgonfiate di più, ma in modo omogeneo?
Un trial successivo ha risposto alla domanda, mostrato innanzitutto che entrambe le tipologie di calza riducono in misura simile ed efficace il volume della gamba, sia in soggetti sani che affetti da insufficienza venosa.

Per quanto riguarda il volume della parte distale della gamba/piede, tuttavia, le GECS sono state più efficaci in entrambe le categorie di persone, determinando quindi una riduzione omogenea del gonfiore senza incorrere nel rischio di congestione della caviglia.

Commenti e consigli

In presenza di edema occupazionale in soggetti sani, l’uso di una calza elastica adeguata è fondamentale. Naturalmente siamo poco abituati ad indossarla soprattutto con i primi caldi, perché sappiamo che può essere difficile da indossare e che provoca sudorazione, costrizione e secchezza della pelle.

Ciononostante, la calza elastocompressiva è un ausilio fondamentale per eliminare certi disturbi, e ciascuna delle due categorie ha dei pro e dei contro che possiamo riassumere per orientare la scelta.
Per ora ci riferiremo a soggetti sani senza insufficienza venosa.

Calze a compressione graduata

Rientrano in questa categoria tutte le calze certificate come terapeutiche, che vengono consigliate nelle persone con insufficienza venosa sulla base delle linee guida ma che possono essere impiegate anche nei soggetti sani con sintomi quali dolore e pesantezza.
Ricordo che possono avere diverse intensità di compressione, si parte dalla prima classe fino ad arrivare alla terza o quarta; nei soggetti sani sarà sufficiente una prima classe.

Vantaggi – sono più efficaci in termini di riduzione di dolore e pesantezza alle gambe e funzionano nell’evitare l’edema a fine giornata, e soprattutto riducono il volume dell’arto in maniera omogenea senza rischio di congestione alle caviglie.
Svantaggi – sono più difficili da indossare e possono creare costrizione sul lato dorsale della caviglia.

Le consiglierei come prima scelta in chi ha particolare dolore e pesantezza ed è disposto a tollerare la difficoltà di indossarle.

Calze a compressione progressiva

Vantaggi – altrettanto o addirittura più efficaci nella riduzione dell’edema a fine giornata, sono più facili da indossare e tendenzialmente meno fastidiose da portare; inoltre, massimizzano la funzione di pompa del polpaccio e sono più efficaci nell’aumentare l’eiezione di sangue dalla gamba.
Svantaggi – rischiano di svuotare maggiormente il polpaccio rispetto alla caviglia con conseguente congestione della stessa; inoltre, tenderebbero a scivolare di più verso il basso.

Possono essere impiegate da chi desidera un miglioramento ed è particolarmente esigente in fatto di comfort, ricordando però il problema della possibile disparità nella distribuzione del gonfiore residuo.
Sono consigliate alle persone con particolari cause di insufficienza venosa, nelle quali è utile massimizzare la funzione di pompa muscolare del polpaccio.

Un ultimo dato interessante è stato ottenuto da uno studio inglese nel 2016, che ha documentato come la calza elastica a compressione graduata sia stata più efficace dell’elettrostimolazione nel ridurre il gonfiore a fine giornata, sempre nei soggetti con edema occupazionale.

Fonti

https://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/0268355516682885

https://www.ejves.com/action/showPdf?pii=S1078-5884%2813%2900076-2

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4870057/pdf/10-1055-s-0035-1558646.pdf

La cellulite si associa a cattiva circolazione e spesso alla comparsa di vene visibili sulle gambe

Peptidi bioattivi di collagene e cellulite

La cellulite è una malattia multi-fattoriale che colpisce circa l’85% delle donne sopra i 20 anni. Si tratta di una patologia vera e propria che è caratterizzata da eccesso di tessuto adiposo con aspetto della cute “a buccia d’arancia” o “a materasso”.
I fattori legati all’insorgenza di cellulite sono molteplici, legati sia alla genetica sia alla dieta, alla sedentarietà, all’età e alle gravidanze oltre che all’alimentazione.

Caratteristiche della cellulite

Alla base della cellulite ci sono alterazioni della microcircolazione e del drenaggio linfatico, che determinano modificazioni nella matrice extracellulare e nel metabolismo delle cellule adipose.
Ricordiamo che la matrice extracellulare è costituita dall’insieme delle molecole che stanno fuori dalle cellule nei tessuti sottocutanei, e le cellule adipose, in presenza di cellulite, sono “stressate” dal ristagno di liquidi e crescono in maniera disordinata protrudendo nel derma.

Queste alterazioni del tessuto extracellulare legate alla cellulite sembrano interessare sia il derma, cioè la parte più profonda della cute, sia il tessuto sottocutaneo, che si trova più profondamente rispetto al derma e che ospita il tessuto adiposo.
Inoltre, studi recenti hanno mostrato che, nelle persone affette da cellulite, i setti di tessuto connettivo presenti nel derma sono più sottili e maggiormente perpendicolari alla superficie cutanea.

Ciò sembra in apparente contraddizione con l’edema dei setti interlobulari che si osserva nelle fasi precoci della cellulite nel contesto del tessuto adiposo; si tratta, in realtà, di aspetti coesistenti che rivelano la complessità di questa condizione clinica.
Ricordiamo che in questi setti di tessuto connettivo scorrono i capillari sanguigni e i vasi linfatici che drenano i liquidi.

Nella cellulite, infine, si osservano un derma meno denso, un maggiore spessore della giunzione tra derma e ipoderma e una cute meno elastica, con un aspetto ondulato detto appunto “a materasso” o “a buccia d’arancia”.
Va ricordato che la cellulite è una condizione diversa dall’obesità, ma peggiora all’aumentare del BMI (Body Mass Index), che è una misura del sovrappeso data dal rapporto tra peso e altezza elevata al quadrato.

Peptidi di collagene e cellulite

I peptidi bioattivi di collagene, assunti come supplemento orale, sono noti per stimolare il metabolismo del derma in quanto favoriscono la produzione di collagene ed elastina da parte delle cellule bersaglio, i fibroblasti.
Questo effetto è stato dimostrato in alcuni studi su modelli animali.

Altri studi su soggetti sani di sesso femminile hanno mostrato un beneficio sulla cute dopo assunzione di peptidi di collagene, con miglioramento dell’elasticità e della tonicità visibile dall’esterno.

I peptidi bioattivi di collagene vengono assunti per bocca e possono essere assorbiti anche senza essere scissi in aminoacidi nel tratto digerente, arrivando quindi in forma attiva nella cute.

Lo studio in esame è stato pubblicato nel 2015 nel Journal of Medicinal Food.
Esso ha indagato l’effetto di una supplementazione orale di 2,5 grammi al giorno di peptidi bioattivi di collagene in donne di età compresa tra 25 e 50 anni circa affette da cellulite moderata, sia in sovrappeso che normopeso (BMI maggiore o minore di 25).
Al gruppo di controllo, invece, è stato somministrato un placebo, cioè una sostanza che non ha nessuna efficacia clinica.
L’integratore utilizzato è stato il Verisol® prodotto dalla Gelita AG.

La misurazione del grado di cellulite è stata effettuata con il Pinch Test sulla coscia; questo test consiste nel pinzare delicatamente la cute tra indice e pollice osservando l’aspetto della pelle, che nella cellulite presenta i tipici affossamenti.
Inoltre, è stata valutata la superficie cutanea con uno strumento ottico in grado di fornire un imaging tridimensionale.

Il primo risultato interessante di questo studio è stato che nei soggetti normopeso, dopo 6 mesi di integrazione, si è osservata una riduzione del 9% nel punteggio classificativo della cellulite.
Questo si è tradotto in un miglioramento visivo al Pinch Test con pelle più liscia e minore comparsa di fossette.
Lo stesso effetto si è osservato anche nelle donne sovrappeso, ma con minore percentuale di miglioramento del punteggio (4% a 6 mesi).

Lo studio tridimensionale della cute ha mostrato, d’altra parte, una maggiore densità del derma rispetto ai controlli dopo la supplementazione con peptidi di collagene, con conseguente minore protrusione dei lobuli adiposi.
Questo significa che l’integrazione con questi peptidi stimola le cellule del derma a ripristinare componenti della matrice che rendono il derma stesso più vitale e resistente, conferendo alla cute un aspetto migliore.

Conclusioni

Il trattamento medico della cellulite mira solitamente al miglioramento della microcircolazione e all’azione di lipolisi; tra le metodiche usate ci sono l’ozonoterapia e la carbossiterapia.
Questo studio ci mostra che un ulteriore “bersaglio” per migliorare la cellulite può essere la ricostituzione della matrice nel derma, e i peptidi bioattivi di collagene si mostrano in questo efficaci.
Un trattamento combinato con le altre metodiche potrebbe migliorare indubbiamente il risultato.

La supplementazione con peptidi bioattivi di collagene non mostra effetti collaterali; tuttavia, lo studio stesso ci ricorda che per migliorare la cellulite non possiamo prescindere da un controllo del peso corporeo, e quindi va tenuto in grande considerazione lo stile di vita.

Fonti e riferimenti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4685482/

https://www.gelita.com/en/products/collagen-peptides/verisol

geloni alle mani e ai piedi

Geloni alle mani e ai piedi: cause e rimedi efficaci

È possibile avere i geloni alle mani e ai piedi anche in primavera o in estate?
Sicuramente accade con minore frequenza rispetto all’inverno, ma alcune persone soffrono di questo problema anche se fa caldo e con parecchio disagio.

Riscontro questo disturbo più frequentemente nelle donne, che lamentano un grosso imbarazzo nel porgere la mano o nel mostrare le dita a causa del loro colore violaceo o comunque scuro.

Ma quali sono le cause sottostanti, o meglio, si tratta effettivamente di un problema di circolazione?
In che modo si può migliorare la situazione?

In effetti il problema è più eterogeneo di quello che sembra. Vediamone le cause e come si può migliorare la situazione, cercando di essere più sintetici possibile per dare indicazioni utii a chi soffre di questo problema.

Cause dei geloni alle mani e ai piedi

I cosiddetti geloni alle mani e ai piedi in realtà non sono i geloni propriamente detti; vedremo successivamente il perché.
Per ora diciamo che il problema si riconduce generalmente ad una alterazione nella microcircolazione cutanea a livello delle estremità degli arti.

La microcircolazione è una struttura microscopica dove i piccoli vasi arteriosi si sfioccano nei capillari, nei quali avviene il passaggio di sostanze nutrienti e ossigeno alle cellule, per poi proseguire nelle vene che riporteranno il sangue al cuore.
Le arterie della microcircolazione, chiamate arteriole, sono dei tubicini che si allargano e si restringono a seconda degli stimoli grazie alla presenza di cellule muscolari che albergano nella loro parete.

In caso di geloni alle mani e ai piedi si possono verificare due condizioni: un’ostruzione meccanica di questi vasi oppure una contrazione eccessiva delle cellule muscolari della parete, chiamato vasospasmo.

Le ostruzioni sono causate da patologie gravi come le vasculiti, cioè infiammazioni dei vasi sanguigni, o le embolie, cioè chiusure improvvise di un’arteria a causa di un frammento di sangue coagulato che arriva seguendo la circolazione.
Altre situazioni che causano ostruzione sono trombosi in presenza di tumori o presenza di malattie del sangue che lo rendono troppo denso.

Il vasospasmo è alla base dei cosiddetti geloni; si tratta di una contrazione eccessiva e duratura delle cellule muscolari delle piccole arterie che provoca un temporaneo calo del flusso sanguigno, solitamente reversibile.

Quali problemi stanno alla base del vasospasmo? Ci sono alcune condizioni cliniche da conoscere; vediamole di seguito.

1) Fenomeno di Raynaud

Si tratta di un vasospasmo a livello dei piccoli vasi delle dita che si scatena solitamente con l’esposizione al freddo o in risposta agli stimoli emotivi come paura o ansia.
Non è necessario che la temperatura sia particolarmente rigida per scatenare un attacco in quanto è sufficiente che ci sia un passaggio da caldo a freddo.

La causa sembra risiedere in una iper-reattività delle fibre nervose che regolano la contrazione delle cellule muscolari delle arteriole, un fattore quindi molto soggettivo.

Come si manifesta?
La forma tipica ha tre fasi. Inizialmente compare uno sbiancamento improvviso ad una o più dita, causato dal minor flusso di sangue, successivamente il dito diventa bluastro a causa della scarsa ossigenazione del sangue e infine diventa rosso viso a causa di una vasodilatazione compensatoria.

Non sempre sono presenti tutte e tre le fasi ma lo sbiancamento deve essere presente per poter porre la diagnosi, mentre le altre due fasi sono variabili. Ricordiamo che, oltre al cambiamento di colore, possono associarsi anche dolore, alterazioni della sensibilità come formicolii o intorpidimento o raramente comparsa di ulcere sulla pelle; la durata dell’attacco è in genere di 10-20 minuti.

Il fenomeno di Raynaud si osserva tipicamente in una o più dita della mano o del piede, di solito compare sia nella faccia volare che dorsale del dito e  può comparire anche in altre estremità del corpo come il naso, le orecchie o i capezzoli.
Dal punto di vista delle sue cause dobbiamo distinguere la forma primitiva da quella secondaria; vediamole brevemente.

geloni alle mani e ai piedi

Forma primitiva

La forma primitiva non ha cause apparenti, compare soprattutto a partire dall’età adolescenziale nelle femmine e di solito c’è una familiarità; il problema interessa circa il 10% della poplazione.
Tra le caratteristiche principali del fenomeno primitivo va ricordato che, di solito, inizia su un dito ma poi si propaga alle altre dita in modo abbastanza simmetrico e bilaterale.
Il dolore, se presente, è moderato e non compaiono ulcere.

Forma secondaria

La forma secondaria si associa condizioni cliniche variabili di cui è manifestaizone, compare più spesso nell’età adulta e nel sesso maschile e di solito coinvolge un solo dito in maniera asimmetrica e monolaterale.
A seconda della causa possono esserci forme gravi, anche con dolore intenso e comparsa di ulcere.

Vediamo le cause principali di forma secondaria del fenomeno di Raynaud.

Connettiviti

Si tratta di patologie subdole, caratterizzate spesso da risposte autoimmunitarie che provocano infiammazioni dapprima nelle articolazioni e nei muscoli che poi si estendono ai vari organi e ai vasi sanguigni; alcuni esempi sono la sclerodermia, il lupus eritematoso e l’artrite reumatoide.
In queste patologie il fenomeno di Raynaud può essere tendenzialmente più grave, e la sua comparsa può precedere anche di anni l’esordio conclamato  della malattia di base.
Per questo motivo è fondamentare indagarlo, in quanto la diagnosi precoce di connettivite consente di evitarne la progressione a danno d’organo.

Farmaci

Alcuni farmaci possono provocare il fenomeno di Raynaud, come i beta bloccanti non selettivi, usati per lipertensione o anche in forma di gocce oculari, la ciclosporina, i farmaci per l’emicrania a base di ergotamina, estrogenici senza progesterone, alcuni farmaci per la chemioterapia o sostanze stupefacenti come cocaina ed efedrina.

Forme occupazionali

In questi casi il fenomeno di Raynaud si manifesta in persone che lavorano con strumenti vibranti, come martelli pneumatici, probabilmente a causa di una azione meccanica dello strumento.

Infine ricordiamo che, in presenza di un fenomeno di Raynaud primario o secondario, ci sono dei fattori che possono peggiorarlo aumentando la frequenza e l’intensità degli attacchi.
Tra questi ricordiamo il fumo di sigaretta, che peggiora la vasocostrizione, e la presenza di alcune malattie come l’aterosclerosi, la sindrome dello stretto toracico, il feocromocitoma e la sindrome del tunnel carpale.

2) Acrocianosi periferica

In questa situazione osserviamo cianosi alle estremità di mani e piedi, cioè colorito bluastro della cute dovuto a carenza di ossigeno, in donne tipicamente molto magre o anoressiche.
A volte si associano sintomi come senso di freddo e ipersudorazione, ma senza perdita di sensibilità; questa patologia è solitamente benigna e sembra legata ad una alterazione nella termoregolazione per scarsità di grasso.

3) Livedo

Consiste nella comparsa di un reticolo bluastro sulla pelle degli arti inferiori, tipicamente alle cosce ma anche in altre parti del corpo come l’addome.
Anche in questo caso il fenomeno è dovuto ad una alterazione delle arteriole cutanee che provoca un accumulo di sangue deossigenato nelle piccole vene cutanee.
La livedo esiste in forme primitive che sono benigne, tipiche delle donne e che spariscono quando si scalda la zona, e in forme secondarie a fenomeni di embolia sulle arterie, farmaci o vasospasmo causato dal freddo.

4) Lesioni da freddo non gelido

Queste lesioni compaiono quando i liquidi corporei stanno per tanto tempo esposti a temperature fredde ma non congelanti (circa -0,5 °C), soprattutto se in presenza di umidità o ambiente bagnato senza riuscire ad asciugare correttamente le dita.
Questa patologia può capitare a chi svolge attività lavorative al freddo e utilizzando l’acqua.

Quando cessa l’esposizione al freddo e ci si riscalda, compaiono sintomi tipici di neuropatia sensitiva cioè intorpidimento, formicolii o sensibilità alterata, ma nei casi gravi i soggetti non riescono a esporsi nuovamente a quelle temperature perché compaiono gonfiore, dolore e ipersudorazione.

Si tratta di una condizione clinica probabilmente sottostimata e sotto diagnosticata.

5) Geloni propriamente detti

Ecco cosa sono realmente i geloni: lesioni cutanee infiammatorie che compaiono a livello dei polpastrelli, sul letto ungueale oppure nel dorso delle dita in persone esposte a temperature non congelanti.
Sono lesioni rosse o violacee, rilevate, e compaiono tipicamente a fine inverno o inizio primavera, ma solitamente regrediscono in alcune settimane.

geloni alle mani e ai piedi

6) Congelamento

In questo caso, per l’esposizione a temperature glaciali, si formano cristalli di ghiaccio nei tessuti delle estremità con lesioni di gravità variabile, che possono arrivare alla necrosi con conseguente necessità di amputare le dita.

Sono situazioni tipiche degli alpinisti estremi.

Quali esami fare in caso di cosiddetti geloni alle mani e ai piedi

Ecodoppler – visita angiologica – innanzitutto va esclusa la presenza di placche aterosclerotiche nelle arterie degli arti superiori, patologia non frequente ma che si osserva ad esempio in caso di diabete o insufficienza renale, per valutare subito lo stato della circolazione e fare una prima diagnosi differenziale tra le varie condizioni viste sopra.

Visita reumatologica con esami del sangue – in presenza di sintomi suggestivi di connettivite come dolori muscolari e articolari, soprattutto se in età adulta, è opportuno effettuare una visita specialistica con esami del sangue, mirati alla ricerca di auto-anticorpi e di alterazione degli indici di infiammazione.

A giudizio dello specialista reumatologo, poi, si potrànno poi eseguire esami più specifici come la capillaroscopia, che dà informazioni dettagliate sulla microcircolazione mostrando alterazioni tipiche in caso di connettivite.

Come curare i geloni alle mani e ai piedi?

La terapia ha l’obiettivo di migliorare la qualità di vita della persona e non di eradicare il problema, che molto spesso non si può togliere alla radice.

Le fasi della terapia sono due; vediamole.

Prima fase – strategie comportamentali

– bisogna evitare i fattori che possono scetanare il vasospasmo quindi proteggersi dal freddo con calzini o guanti (nei casi gravi valutare anche presidi riscaldabili), soprattutto quando si prendono in mano oggetti freddi come cibo surgelato;
– cercare di mantenere una temperatura uniforme in tutto il corpo e non solo alle estremità, quindi indossare abiti caldi e a strati, compatibilmente con la stagione;
– cercare di controllare gli stati emotivi, quindi imparare a gestire lo stress e l’ansia con tecniche di rilassamento; in questo modo si ridurrà la frequenza degli attacchi;
– in presenza di un attacco di vasospasmo mettere al caldo la parte interessata, ad esempio a contatto con il corpo, per velocizzarne il recupero (sembra banale ma non lo è);
importantissimo non fumare, come ripeto sempre (si ha un sensibile miglioramento), inoltre evitare sostanze eccitanti tipo caffè e simili e farmaci visti in precedenza, quando possibile, oltre che evitare l’uso di strumenti vibranti nel caso delle forme professionali.

Seconda fase (se la prima non funziona) – terapia farmacologica

– i farmaci di prima scelta sono i calcio antagonisti ad azione ritardata, farmaci usati per l’ipertensione che agiscono sulle cellule muscolari delle arteriole rilassandole e causando vasodilatazione.
Alcuni principi attivi sono la Nifedipina o l’Amlodipina, si parte da dosaggi minimi e li si aumenta pian piano; naturalmente possono esserci effetti collaterali come mal di testa, vasodilatazione, gonfiore, ma questi disturbi di solito spariscono nel giro di qualche settimana e per questo i pazienti vanno incoraggiati a tollerarli.
– Ci sono farmaci di seconda scelta ed eventualmente farmaci iniettabili per via endovenosa, ma per questo più difficili da gestire a domicilio.

Consigli pratici

In casi di geloni alle mani o ai piedi è opportuna una visita nell’ambito vascolare, comprensiva di ecodoppler, e come primi rimedi vanno seguiti quelli visti in precedenza, perché danno dei buoni risultati anche se possono essere tediosi da mettere in pratica.
Dobbiamo ricordarci che non esiste una pillola magica per far sprire il problema, ma bisogna piuttosto indagarlo con il medico e studiarne gli approcci più opportuni per migliorarlo.

Sarebbe sempre bene indagare l’ambito vascolare, soprattutto se il problema compare in età adulta, per escluedre concomitanti problrmi di circolazione. Nel caso ci fosse il sospetto di una connettivite, sarà opportuno approfondire con una visita specialistica reumatologica ed esami mirati.

Fonti

https://econtent.hogrefe.com/doi/pdf/10.1024/0301-1526/a000661

https://www.ccjm.org/content/ccjom/84/10/797.full.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6139949/pdf/ms113_p0123.pdf

 

 

 

 

come aumentare le difese immunitarie

Aumentare le difese immunitarie: che ruolo hanno gli integratori?

Come aumentare le difese immunitarie contro le infezioni virali

Problema

Il problema di come aumentare le difese immunitarie torna alla ribalta con l’epidemia causata dal Covid-19, anche se questa malattia ha delle peculiarità rispetto alle comuni infezioni virali perché si tratta di un virus nuovo, che stiamo studiando e per il quale non è ancora disponibile un vaccino.

Domanda: oltre alle misure igieniche e comportamentali, come possiamo aumentare le difese immunitarie contro le infezioni virali ?
Di cosa ha bisogno il sistema immunitario per funzionare bene? Ha senso assumere integratori?

Strumenti: analizzando la letteratura scientifica più recente cerchiamo di ottenere delle indicazioni utili.

A chi può interessare l’articolo? A chiunque abbia poca dimestichezza con la medicina e cerchi risposte basate su dati scientifici recenti.

Cos’è il sistema immunitario e come funziona

Il sistema immunitario è l’apparato difensivo del nostro organismo ed è costituito da cellule e molecole altamente specifiche, che servono a contrastare le infezioni da agenti esterni oltre che neutralizzare tossine alimentari e sostanze inquinanti provenienti dall’ambiente.
Un’altra attività peculiare del sistema immunitario è quella di controllare la crescita anomala delle cellule, come nel caso dei tumori.

Il sistema immunitario è costituito da due diverse componenti, che vengono chiamate immunità innata e immunità acquisita.

come aumentare le difese immunitarie

L’immunità innata è un tipo di risposta infiammatoria stardardizzata, aspecifica e a rapida insorgenza, che si attiva nei confronti degli stimoli lesivi sulle cellule come quelli causati dalle infezioni virali (molto banalmente il virus entra nelle cellule bersaglio e le distrugge).

L’immunità innata è costituita dalla cute e dalle barriere mucose, come quelle del tratto gastrontestinale e respiratorio.

A livello di queste barriere ci sono cellule difensive come i globuli bianchi e i monociti-macrofagi, che assieme a molecole che modulano l’infiammazione chiamate citochine distruggono e smaltiscono gli aggressori.

Molto spesso questa risposta non è sufficiente perché viene elusa dall’agente patogeno, e può addirittura essere dannosa nel caso in cui inneschi una risposta infiammatoria continuativa non autolimitata.

L’immunità acquisita, costituita da cellule chiamate linfociti B e T, necessita di più tempo per essere attivata ma è in grado in genere di sconfiggere l’infezione in modo definitivo.

Il funzionamento dell’immunità acquisita è molto più raffinato rispetto a quello dell’immunità innata; alcune cellule specifiche “m

ostrano” ai linfociti come è fatto l’agente aggressore avviando una catena di comunicazione tra cellule che porta alla produzione di immunoglobuline o anticorpi, molecole create per legarsi a molecole speculari dell’ospite indesiderato per bloccarne l’attività.

Quali micronutrienti servono al sistema immunitario per funzionare

Per svolgere le loro complesse funzioni, le cellule immunitarie hanno bisogno di diverse sostanze come elementi chimici, cofattori e vitamine che partecipano attivamente ai processi metabolici e di sintesi proteica; alcuni di questi substrati sono prodotti dall’organismo ma la maggior parte deve essere assunta con la dieta.

Quali sono, cosa fanno e dove si trovano i micronutrienti?

Vitamina A

Molecola fondamentale  per l’immunità innata a livello della mucosa intestinale, dove modula la risposta mediata da immunoglobuline di tipo A (IgA);

Rende possibile la fagocitosi da parte dei monociti-macrofagi, cioè la capacità che hanno queste cellule di ingurgitare gli agenti patogeni e “digerirli”; inoltre, modula la produzione di citochine pro-infiammatorie.

È coinvolta nello sviluppo e differenziazione dei linfociti T e nel funzionamento dei linfociti B.

Ha un’importante azione antiossidante, cioè protegge dal danno cellulare.

Dove si trova?
Può essere assunta con la dieta da fonti animali come il latte, i formaggi e il burro, il tuorlo d’uovo e la carne, oppure può essere prodotta dall’organismo a partire dal suo precursore, il β carotene, che è presente nei cibi arancioni come carota, zucca e peperone.

Vitamina C

Necessaria per la sintesi di collagene, una molecola strutturale essenziale nei tessuti extracellulari.

La vitamina C è nota per la sua potente azione antiossidante sia diretta che indiretta, in quanto ristabilisce la quantità nece

ssaria di altri antiossidanti come la vitamina E e il glutatione.

Promuove inoltre il funzionamento delle cellule dell’immunità innata, modula la produzione di citochine pro-infiammatorie e ha un importante ruolo nello sviluppo, differenziazione e crescita delle cellule T e nella produzione di anticorpi.

Dove si trova?
Diffusamente presente in natura, possiamo trovarla nella frutta (agrumi, kiwi, ananas), nella verdura (lattuga, radicchio, spinaci), oltre che nel broccolo, nel cavolfiore, nel pomodoro e nei tuberi.

Vitamina D

Oltre al suo noto ruolo nel metabolismo delle ossa, è molto importante anche per il sistema immunitario nel quale svolge un’azione protettiva sul microbiota intestinale.
Cos’è il microbiota? L’insieme della flora batterica normalmente presente nel nostro tratto digerente; ricordiamo che il microbiota ha un ruolo essenziale nell’equilibrio immunitario.

La vitamina D protegge le membrane delle cellule intestinali, oltre che renali e respiratorie.

Inoltre, favorisce il movimento, la differenziazione e la fagocitosi dei monociti-macrofagi, regola la produzione di proteine antimicrobiche e l’attività delle cellule B e T.

Alcuni studi in vitro mostrano che la vitamina D stimola la produzione di proteine antivirali, per cui si presume un suo ruolo nel contrastare le infezioni dell’apparato respiratorio.

Dove si trova?
In natura ne esistono due forme, la vitamina D2 e la vitamina D3.
La D2 è presente in alcuni funghi.
La D3 è la forma più attiva nell’essere umano ed è presente nell’olio di fegato di merluzzo, nei pesci nordici (salmone, aringa, merluzzo, sgombro), nel tuorlo d’uovo, nel latte e nei suoi derivati.

La vitamina D è sintetizzata anche dal nostro organismo grazie all’esposizione ai raggi solari, e per questo motivo la sua concentrazione tende ad essere carente in buona parte della popolazione.

Vitamina E

Importante nel supportare la funzione di barriera delle mucose, la vitamina E ha anche un’azione antiossidante e immunomodulante sulle cellule T.

Dove si trova?
Negli oli vegetali, nelle arachidi, nelle mandorle e nei semi di girasole, oltre che nelle uova.

Vitamina B6, B12 e folati

Queste sostanze sono prevalentemente coinvolte nella funzione immunitaria intestinale, oltre che nell’attività delle cellule T e nella produzione di anticorpi.

La vitamina B6 modula la risposta infiammatoria ed è coinvolta nella sintesi di aminoacidi, i mattoni necessari per la produzione degli anticorpi.

Dove si trovano?
Vitamina B6 e folati nelle verdure a foglia verde come spinaci, broccoli, asparagi, lattuga, nei legumi come fagioli e pise

lli, in alcuni frutti come kiwi, fragole e arance, nelle noci e nelle mandorle; inoltre il fegato, le uova e i formaggi sono ricchi di questi micronutrienti.

La vitamina B12 è presente solo in fonti animali come carne, formaggi e uova, e pertanto va integrata in persone che seguono una dieta vegana.

Ferro, zinco, rame, selenio e magnesio

Elementi importantissimi per il funzionamento dell’immunità innata in quanto aiutano numerosi enzimi coinvolti nel metabolismo cellulare.

Hanno anche azione antiossidante e di modulazione della sintesi di citochine, oltre che un ruolo fondamentale nel funzionamento delle cellule T e B e quindi anche nella sintesi di anticorpi.

Dove si trovano?
Le fonti sono carne, pesce, crostacei, uova, latte e derivati, verdure, legumi, noci, cereali, semi di canapa.
Ricordiamo che il selenio tende ad essere carente nella nostra popolazione per motivi geografici legati al terreno.

Cosa indebolisce il sistema immunitario

Oltre all’apporto di micronutrienti, per aumentare le difese immunitarie vanno considerati alcuni fattori che possono interferire con l’equilibrio difensivo dell’organismo.

Terapia antibiotica non necessaria o protratta

Le infezioni batteriche rendono spesso necessaria una terapia antibiotica, che ovviamente non va evitata ma che può distruggere anche la flora batterica del nostro intestino, importantissima per le difese immunitarie.

Se la terapia antibiotica non è necessaria, come nelle comuni infezioni virali, o se è di necessità eccessivamente protratta, può indebolire le difese immunitarie.

Soluzione: rivolgersi sempre al medico per valutare se la terapia antibiotica è realmente necessaria, e se deve essere protratta a lungo assicurarsi di integrare con probiotici.

Stress

Studi recenti mostrano che lo stress e lo stato psichico sono interconnessi con il sistema endocrino e immunitario e c

on la modulazione della risposta infiammatoria.

Nel cervello gli stimoli stressogeni aumentano la produzione di citochine pro-infiammatorie, attivano le cellule immunitarie cerebrali e provocano cambiamenti nella plasticità delle sinapsi con formazione di circuiti alterati tra i neuroni.

Per quanto riguarda le difese immunitarie, lo stress cronico sembra indebolirle perché causa l’insorgenza di uno stato infiammatorio persistente di base, che è un fattore causale di patologie croniche come l’aterosclerosi, il diabete e l’insulino-resistenza in generale.

Soluzione: per quanto possibile, gestire adeguatamente stati di ansia e depressione oltre che ritmi di vita frenetici diventa im

portante anche per il corretto equilibrio del sistema immunitario.

Sonno

Il sonno è fondamentale per le difese dell’organismo e ha una relazione bidirezionale con il sistema immunitario, come dimostrato da recenti studi. Cosa significa?
Ad esempio, l’attivazione della risposta immunitaria nei confronti di un’infezione può rendere necessario dormire per più tempo o provocare una disregolazione del sonno, come in effetti possiamo notare nella comune esperienza.

D’altra parte, dormire in modo qualitativamente adeguato e per un tempo sufficiente regola correttamente la risposta infiamm

atoria e ottimizza la crescita e il funzionamento delle cellule immunitarie.

La privazione di sonno, come emerge da studi su modelli animali, favorisce anche in questo caso l’attivazione di una risposta infiammatoria cronica attraverso l’aumento della produzione di citochine, con conseguente aumento del rischio di sviluppare patologie croniche.

Inoltre, uno stato infiammatorio persistente rende l’organismo più suscettibile alle infezioni e può alterare anche la risposta alle vaccinazioni.

Soluzione: dormire sufficientemente e dotarsi di tutto ciò che serve per una migliore qualità del sonno.

Età

Con l’avanzare dell’età il funzionamento del sistema immunitario decresce, per cui il soggetto anziano è più suscettibile alle infezioni e può sviluppare con maggiore probabilità delle forme cliniche più gravi.

Soluzione: l’anziano spesso necessita di integrazione alimentare.

Fumo

Il fumo di sigaretta danneggia gravemente le cellule dell’apparato respiratorio e ne distrugge i meccanismi di protezione nei confronti delle infezioni.

Un recente studio di ricercatori cinesi mostra che l’effetto del fumo sulle difese immunitarie è duplice.

Da una parte, infatti, fumare indebolisce il sistema immunitario e aumenta il rischio di infezioni anche a causa dell’attivazione infiammatoria persistente, dall’altra può provocare addirittura una risposta immunitaria eccessiva.
Questo processo sembra dipendere dai diversi effetti che i componenti del fumo esercitano sul singolo individuo in funzione delle sue particolari condizioni cliniche.

Il fumo sembra anche stimolare le difese immunitarie ad attivarsi contro cellule e tessuti propri dell’organismo, generando risposte autoimmunitarie.
I meccanismi molecolari alla base di questa fenomenologia non sono ancora chiari.

Soluzione: ovviamente non fumare, e non stare vicino a chi fuma (il fumo passivo causa gli stessi problemi).

Attività fisica e sedentarietà

Sappiamo che l’attività fisica è salutare, ma per quanto riguarda le difese immunitarie vanno precisati alcuni aspetti.

L’attività fisica corretta corrisponde all’esercizio moderato, perché l’esercizio fisico estenuante attiva l’immunità innata e quindi la risposta infiammatoria tanto quanto la sedentarietà, e diventa così un fattore coinvolto nell’insorgenza di malattie croniche.

L’esercizio fisico estenuante provoca anche una alterata crescita delle cellule T, favorendo un indebolimento delle difese e di conseguenza una maggiore suscettibilità alle infezioni, soprattutto delle vie respiratorie.

La sedentarietà e l’obesità stesse attivano l’immunità innata e quindi uno stato di infiammazione cronica.

Un dato interessante emerso da uno studio recente è che l’inattività acuta, come avviene dopo un infortunio, sembra modulare negativamente il sistema immunitario in modo diretto, soprattutto se è presente una patologia infiammatoria di base come l’asma.

Soluzione: non praticare sport estremi ma esercizio fisico costante e moderato.

Servono gli integratori?

In letteratura mancano dati certi su quali siano i livelli ottimali di micronutrienti tali per cui le difese immunitarie funzionino idealmente al massimo delle loro possibilità.

Generalmente ci si attiene ad un parametro chiamato RDA (Recommended daily allowance – quota giornaliera raccomandata), che rappresenta il valore medio di ciascun micronutriente che deve essere assunto ogni giorno affinché, nella maggior parte dei casi, vengano evitati stati di carenza.

Sicuramente gli studi ci indicano alcune categorie di soggetti che necessitano di una integrazione (donne in gravidanza e anziani).
Gli anziani in particolare presentano un abbassamento della funzione immunitaria sia innata che acquisita.
A queste categorie si aggiungono i fumatori, le persone che abusano di alcol e i soggetti con sindrome da insulino-resistenza come diabetici e obesi.

Sappiamo che gli stati carenziali di vitamine e oligoelementi predispongono alle infezioni o addirittura sono responsabili di patologie legate alla malnutrizione.

Domanda: assumere quantità di micronutrienti superiori alla RDA favorisce ulteriormente il sistema immunitario?
Alcune considerazioni preliminari.

Teoricamente una dieta varia ed equilibrata come quella mediterranea consente all’organismo di assumere tutti i micronutrienti necessari per evitare stati carenziali e patologie correlate (cosa che non accade in molte parti del mondo, anche industrializzato).

Gli integratori di solito vengono acquistati liberamente dalla popolazione senza consultare il medico o il nutrizionista, e senza fare un dosaggio preliminare della concentrazione di micronutriente nel sangue.

Attorno alla vendita di integratori ruota un businness globale, e anche per questo è bene documentarsi adeguatamente su ciò che si intende assumere.

come aumentare le difese immunitarie

Studi recenti sulla popolazione adulta americana non mostrano evidenza di miglioramento dello stato di salute con l’assunzione di integratori a base di vitamine e sali minerali; il parametro “miglioramento della salute” è stato valutato, però, in termini di mortalità globale, malattie cardiovascolari, tumori e malattie neurodegenerative.

Sono descritti casi di tossicità legati ad assunzione eccessiva di sali minerali come il ferro o di vitamine liposolubili come vitamina A e vitamina E.
In particolare, l’assunzione in dosi tossiche di vitamina E nei fumatori è correlata ad un aumento del rischio di neoplasie polmonari.
Anche l’eccessiva assunzione di rame ha mostrato degli effetti avversi, paradossalmente addirittura di peggioramento della risposta immunitaria.

Chi e come deve integrare i micronutrienti

Vitamina A

Cosa sappiamo?
Nel bambino, dosaggi superiori alla RDA proteggono da diarrea e morbillo e accelerano la guarigione in caso di polmonite, diarrea legata al morbillo e infezioni respiratorie.

Generalmente con una dieta varia non si sviluppano stati carenziali.

Attenzione alla tossicità da dosi massive soprattutto in gravidanza, in quanto l’eccesso di vitamina A può avere un effetto teratogeno sul feto (cioè può causare malformazioni).

Bisogna integrare?
Allo stato attuale non c’è evidenza che sia necessaria una integrazione nell’adulto per potenziare le difese immunitarie.

Vitamina C

Cosa sappiamo?
La carenza provoca suscettibilità alle infezioni soprattutto del tratto respiratorio.
L’aspetto interessante è questo: la carenza può svilupparsi non solo per insufficiente apporto con la dieta ma anche per eccessiva esposizione ad inquinanti atmosferici che aumentino lo stress ossidativo a livello respiratorio, in quanto aumenta il consumo di vitamina C che agisce da “tampone” antiossidante.

I fumatori attivi e passivi, che sono esposti a stress ossidativo continuo, hanno livelli di vitamina C più bassi del normale e dovrebbero secondo alcuni studi assumerne una supplementazione giornaliera.
Anche i diabetici, gli obesi, gli anziani e i pazienti istituzionalizzati hanno livelli di vitamina C tendenzialmente più bassi e anche per loro andrebbe considerata una integrazione alimentare.

La supplementazione di vitamina C in soggetti che praticano esercizio fisico intenso si è mostrata in grado di ridurre l’incidenza del comune raffreddore, con un quantitativo giornaliero totale di 200 mg comprensivi di assunzione dietetica e supplementazione.

Un recentissimo studio, inoltre, conferma anche che la supplementazione di vitamina C riduce i valori pressori nei soggetti con ipertensione essenziale, con dosaggio totale superiore ai 200 mg al giorno.

come aumentare le difese immunitarie

Bisogna integrare?
In generale la supplementazione di vitamina C in adulti e bambini sembra ridurre l’incidenza di infezioni respiratorie.
La dose di vitamina C dovrebbe garantire concentrazioni plasmatiche di almeno 100-200 mg al giorno tra assunzione dietetica e integrazione; ricordiamo che la RDA è di circa 80 mg al giorno.

Quando l’infezione respiratoria è già manifesta, sia nelle alte vie respiratorie come in caso di raffreddore o tracheite sia in caso di polmonite, il consumo di vitamina C è nettamente maggiore a causa dello stress ossidativo, e la supplementazione è efficace nel ridurre i tempi di guarigione.

Il dosaggio in questo caso dovrebbe essere più elevato per far fronte alle aumentate richieste metaboliche e assestarsi a 0,5-1,5 grammi totali al giorno.

Vitamina D

Cosa sappiamo?
La vitamina D può essere deficitaria nella sua forma attiva a causa della scarsa esposizione al sole.
La sua RDA è di circa 600 UI al giorno ma cresce nella popolazione anziana, dove raggiunge un range di 600-800 UI.

La vitamina D è molto importante per le difese immunitarie in gravidanza perché protegge il neonato dalle infezioni respiratorie.

La maggior parte degli studi mostra una correlazione tra valori plasmatici deficitari di vitamina D e peggioramento di problemi respiratori, soprattutto nei soggetti asmatici con valori tendenzialmente carenti.
Secondo alcuni può essere razionale supplementare la vitamina D per prevenire infezioni virali, sulla base di studi in vitro dove è stato dimostrato questo effetto.
In vivo le evidenze in questo senso ancora controverse; il dosaggio raccomandato per la supplementazione varierebbe da 300 a 2600 UI al giorno.

Altri studi suggeriscono di effettuare un dosaggio preliminare della vitamina D nel sangue prima di iniziare l’integrazione; sembrano preferibili dosaggi giornalieri costanti piuttosto che dosaggi intermittenti più elevati, come si usa fare nei cicli di integrazione.

Bisogna integrare?
In generale possiamo dire che c’è evidenza di riduzione del rischio di infezioni respiratorie in adulti e bambini dopo supplementazione con vitamina D.
In caso di infezioni respiratorie manifeste come influenza la supplementazione accelera la guarigione; non ci sono dati certi sul dosaggio.

Vitamina E

Cosa sappiamo?
La supplementazione di vitamina E oltre i livelli raccomandati sembra migliorare la risposta immunitaria negli anziani, in particolare in termini di risposta alla vaccinazione.

Secondo uno studio recente questo effetto sembra dipendere dai livelli pre-supplementazione delle citochine nel sangue; sembra esserci quindi molta variabilità individuale nella risposta alla supplementazione.

Ci sono diversi studi su modelli animali che supportano una azione protettiva della supplementazione con vitamina E nei confronti delle infezioni respiratorie, e questi dati sono stati in parte validati anche in alcuni trial sulla popolazione anziana.

Un altro studio ha documentato una protezione dalle infezioni respiratore correlata ad una integrazione di 200 UI al giorno di α-tocoferolo preso per un anno; i dati però vanno confermati da studi più ampi.

Va ricordato che i soggetti fumatori esposti ad elevati dosaggi di vitamina E mostrano un ulteriore aumento del rischio di neoplasie polmonari.

Bisogna integrare?
Nell’anziano va considerata l’integrazione; non vi sono dosaggi raccomandati.

Vitamina B6, B12, folati, oligoelementi

Cosa sappiamo?
Nei bambini, la supplementazione di zinco e ferro è risultata in grado di prevenire l’incidenza di alcune infezioni come l’otite e le infezioni del tratto respiratorio.

La supplementazione di zinco accelera la guarigione del comune raffreddore.

Bisogna integrare?
Le vitamine B6 B12 e i folati, e gli elementi essenziali come ferro, rame, selenio, zinco e magnesio vanno integrati in caso di deficit nutrizionale.

Conclusioni

Secondo le ultime evidenze, la supplementazione con multivitaminico a dosi superiori alle RDA può migliorare la resistenza alle infezioni, in particolare nelle categorie a rischio come fumatori, anziani, soggetti che abusano di alcol, diabetici, obesi e con insulino-resistenza in generale.

Bisogna fare attenzione alle dosi eccessive soprattutto nelle donne in gravidanza (vitamina A) e nei fumatori (vitamina E).

In presenza di infezione respiratoria manifesta vi sono benefici in termini di miglioramento dei sintomi e guarigione più rapida con la supplementazione oltre le RDA di alcuni micronutrienti.

Consigli su come aumentare le difese immunitarie
Fondamentale concentrarsi su un’alimentazione varia che comprenda tutti gli alimenti fonte di micronutrienti.

Una buona abitudine può essere quella di alternare l’assunzione di carne e pesce, uova e latticini, e abituarsi a inserire nella dieta semi biologici (chia, girasole, lino, canapa, zucca).

Limitare al minimo se non eliminare del tutto il cibo spazzatura (dolciumi, merende confezionate).

Nell’adulto sano e sportivo possiamo considerare l’integrazione con vitamina C ed eventualmente vitamina D, in quest’ultimo caso evitando dosi eccessive e considerando sempre l’apporto dietetico.

Quando possibile, sarebbe bene dosare preventivamente la concentrazione del micronutriente nel sangue.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1195969/pdf/0036-04.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5352117/pdf/oncotarget-08-268.pdf

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/j.0105-2896.2005.00274.x

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4568388/pdf/JIR2015-678164.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6042468/pdf/main.pdf

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https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6380172/pdf/nihms-1012635.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5707683/pdf/nutrients-09-01211.pdf

https://spiral.imperial.ac.uk/handle/10044/1/41529

https://www.epicentro.iss.it

Come e quando usare la calza elastica come rimedio per la gamba gonfia

Nel 99% dei casi il rimedio per la gamba gonfia NON è la calza elastica; vediamo come e quando usarla correttamente

La comparsa di una gamba gonfia, o edema alla gamba, rappresenta un problema frequente nella popolazione spesso in assenza di altri sintomi; in alcuni casi, tuttavia, può trattarsi del segno di una patologia grave che per questo va riconosciuta e trattata correttamente.

In presenza di questo problema molti medici si limitano a prescrivere alcuni integratori assieme all’utilizzo di una calza elastica, magari senza specificarne la tipologia.
Applicare una calza elastica in una gamba gonfia, tuttavia, non solo non è efficace ma può provocare anche dei danni per un effetto di strangolamento sui tessuti.

Qual è allora la soluzione corretta? Come si riabilita una gamba gonfia?
Di seguito vedremo in cosa consiste l’edema alla gamba, quali sono le cause e i meccanismi attraverso i quali si sviluppa e quali sono i trattamenti adeguati. Seguimi nella lettura!

Le cause della gamba gonfia

Il gonfiore delle gambe si riscontra spesso nel sesso femminile a causa di fattori ormonali legati a gravidanza, menopausa o assunzione della pillola anticoncezionale, ma può colpire anche i maschi ed essere legato a traumi o infiammazioni.

L’edema alla gamba vero e proprio, invece, può essere la manifestazione di una patologia la trombosi venosa profonda, l’insufficienza venosa o l’insufficienza linfatica.
Queste patologie, se non trattate, si cronicizzano fino a causare danni anche irreversibili, oppure portano a complicazioni come ulcere e linfedema.

La comparsa di una gamba gonfia è causata da un accumulo acuto o cronico di liquidi nello spazio situato fuori dalle cellule sottocutanee, chiamato matrice extracellulare, e i meccanismi attraverso i quali si sviluppa sono fondamentalmente tre; vediamoli uno per uno.


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Il primo è rappresentato da un danneggiamento delle cellule dei capillari del microcircolo, cioè quella struttura costituita dai piccoli vasi che portano sostanze nutrienti e ossigeno ai tessuti. Questo danneggiamento altera la permeabilità dei capillari facendone perdere la funzione di filtro, e provocando di conseguenza il passaggio di liquidi nei tessuti.
Alcune situazioni di questo tipo sono rappresentate da ustioni o traumi, o ancora da ciò che succede ai pazienti che vengono sottoposti a bypass della gamba per cattiva circolazione.

Il secondo meccanismo è legato ad un aumento della pressione del sangue all’interno dei capillari, come accade nella insufficienza venosa o nello scompenso del cuore.
Il sangue, a causa dell’ostacolo al flusso, tende a ristagnare nelle gambe esercitando quindi una maggiore pressione sulle pareti dei capillari e causando la fuoriuscita di liquidi nei tessuti.

Il terzo meccanismo dipende dalla perdita patologica di proteine attraverso i reni, che causa un edema diffuso per un meccanismo “oncotico” (il sangue perde ciooè la capacità di trattenere liquidi nei vasi).

Le conseguenze della gamba gonfia

Quando una gamba si gonfia progressivamente per il ristagno di liquidi si verifica uno squilibrio nelle strutture che stanno fuori dalle cellule e che compongono la cosiddetta matrice extracellulare; si tratta di un vero e proprio organo che compone i nostri tessuti sottocutanei, fatto di acqua e molecole strutturali che ne mantengono le proprietà fisiche e che interagiscono con le cellule modulandone la funzione.
Le cause di edema alla gamba, come abbiamo visto, sono diverse, ma tutte portano ad una situazione di sofferenza della matrice extracellulare.

Con il tempo e senza un adeguato trattamento la matrice si ammala a causa di un circolo vizioso in cui la linfa, che è fatta di acqua e cellule, ristagna eccessivamente anziché essere drenata dai vasi linfatici, causando in questo modo infiammazione e acidificazione.
Il sistema dei vasi linfatici, a sua volta, si affatica sempre di più a causa del super lavoro che gli viene richiesto, le sostanze tossiche ristagnano ulteriormente e il gonfiore peggiora diventando sempre più duro, perché l’accumulo di acqua stimola anche la fibrosi in maniera patologica.
Con il tempo la situazione può peggiorare ancora perché possono comparire infezioni dei tessuti sottocutanei e lesioni cutanee; questa situazione è difficilmente reversibile.

Tutte le forme di edema cronico, se non trattate, portano quindi con il tempo ad un sovraccarico del sistema linfatico e, se ci sono altri fattori concomitanti, ad un linfedema.
Nel linfedema la gamba presenta un gonfiore duro e ingravescente perché il sistema linfatico, questa complessa rete di vasi che raccoglie acqua e cellule dai tessuti, non riesce più a svolgere il suo compito proprio perché sovraccaricato per tanto tempo e costretto ad un super lavoro che ne ha abbassato progressivamente la capacità di funzionamento massimale, non riuscendo più a fronteggiare situazioni anche transitorie che provochino l’aumento di liquidi nella gamba.

In queste situazioni un trattamento tempestivo è fondamentale!

Qual è il trattamento corretto?

Molto spesso accade che i pazienti con una gamba gonfia non sappiano a chi rivolgersi e si trovino a vagare da uno specialista all’altro senza ottenere il miglioramento sperato.
Molti medici, inoltre, non conoscono adeguatamente il problema dell’edema alla gamba e prescrivono terapie non adeguate.
Un esempio sono i farmaci diuretici, che spesso vedo prescritti nei pazienti con linfedema con lo scopo di sgonfiare gli arti.

Questi farmaci servono per stimolare l’espulsione di liquidi in alcune malattie cardiache e renali ma non vanno bene nel linfedema in quanto provocano una ulteriore disidratazione in una matrice extracellulare già privata di acqua.
Infatti, al contrario di quanto può sembrare, in questa malattia i tessuti sono gonfi ma sono anche disidratati, perché “intasati” da detriti cellulari, globuli bianchi e batteri che la matrice extracellulare non riesce più a smaltire a causa dell’insufficiente funzione del sistema linfatico.
Per questo motivo è importante che i pazienti affetti si idratino adeguatamente, e seguano naturalmente le altre indicazioni terapeutiche.

Un altro problema è rappresentato dalla errata terapia compressiva.
La cosa più dannosa che si può fare su una gamba gonfia, infatti, è applicare subito una calza elastica senza una precedente terapia decongestiva; vediamo il perché.

Le vene profonde della gamba si trovano avvolte dai muscoli del polpaccio che rappresentano il motore che spreme il sangue verso il cuore contro la forza di gravità.
Quando siamo fermi in piedi la colonna di sangue all’interno delle vene esercita una pressione alla caviglia causata dalla forza di gravità stessa, e il sangue non riesce a essere drenato efficacemente. Quando camminiamo, invece, si innesca una pompa muscolare che, assieme all’alternanza di chiusura e apertura delle valvole venose, permette alla colonna di sangue di “frazionarsi” e di essere drenata.

La calza elastica è un dispositivo terapeutico che esercita una compressione esterna che supporta la funzione dei sistemi venoso e linfatico.
In questo modo, la calza aiuta i vasi malati a drenare i liquidi, migliora il funzionamento delle valvole venose e, nei casi di trombosi, favorisce il recupero della vena interessata.

La calza può essere fatta di diversi materiali e può avere una “forza” compressiva variabile a seconda della necessità e del caso specifico; inoltre le forme sono svariate, in quanto esistono gambaletti che arrivano al ginocchio, autoreggenti fino a metà coscia o collant fino alla vita.
Tutte le calze hanno in comune la caratteristica di esercitare una pressione a riposo e una pressione mentre camminiamo, che si chiama pressione di lavoro. Nel caso delle calze elastiche sappiamo che la differenza tra queste due pressioni è di scarsa entità.

Se la gamba è gonfia, l’applicazione di una calza elastica determinerebbe una pressione a riposo insopportabile per il paziente, e non riuscirebbe a far riassorbire i liquidi in quanto la differenza pressoria tra la situazione di riposo e quella di lavoro è poca.
Inoltre, la sua applicazione potrebbe causare un effetto di strangolamento sui tessuti gonfi con “effetto laccio”, in particolare a livello del piede o alla caviglia dove possono svilupparsi lesioni gravi.

La soluzione per sgonfiare la gamba consiste nell’utilizzo di bendaggi anelastici che abbiano una pressione a riposo nulla o quasi e una pressione di lavoro elevata.
Si tratta del bendaggio flebo/linfologico multistrato con funzione anelastica, che viene effettuato con tecniche particolari e mantenuto giorno e notte per essere rinnovato di solito dopo alcuni giorni, fino a decongestione completa.

In questo caso, essendo la differenza tra le due pressioni elevata, faremo in modo che durante la deambulazione la pompa dei muscoli del polpaccio aumenti la pressione del compartimento e, grazie alla presenza del tutore anelastico che è poco o nulla estensibile, permetta alla gamba di sgonfiarsi progressivamente.

I bendaggi anelastici sono creati in diversi modi e sono fatti di materiali differenti, come ad esempio bende anelastiche o bende allo zinco, e vanno effettuati da un medico competente.
Inoltre, possono essere associati ad una terapia farmacologica che agisce detossificando la matrice extracellulare e favorendo il riassorbimento dei liquidi in eccesso.

Camminare è fondamentale in questa fase della terapia, perché sono proprio i muscoli del polpaccio il motore da sfruttare per svuotare la gamba dai liquidi in eccesso, con la contenzione della benda.
In un secondo momento, quando la gamba sarà ridotta di volume, sarà possibile scegliere un tutore elastico su misura, di materiale diverso a seconda delle esigenze del paziente.

Ricordiamo che per trattare correttamente una gamba gonfia è importante una diagnosi precoce e corretta, finalizzata ad avviare un percorso terapeutico specifico che si potrà ottenere solo rivolgendosi ad un medico specializzato.