La trombosi venosa superficiale si maniifesta con dolore lungo il decorso della vena interessata

Trombosi venosa superficiale: come riconoscerla e trattarla correttamente

La trombosi venosa superficiale è una patologia piuttosto temuta che si presenta soprattutto nella stagione estiva. Si tratta di un evento improvviso e non sempre prevedibile, che genera spesso preoccupazione anche solo per la presenza della parola “trombosi”.

In effetti, pur essendo benigna quando diagnosticata precocemente, la trombosi venosa superficiale può anche associarsi a complicanze gravi come le embiolie.
Per questo è opportuno riconoscerla il prima possibile e trattarla in maniera adeguata.

Come si riconosce una trombosi venosa superficiale? Qual è la terapia corretta?
In questo articolo ho riassunto le principali caratteristiche di questa patologia e le linee guida su come comportarsi.

Trombosi venosa superficiale: che cos’è?

La trombosi venosa superficiale si manifesta quando il sangue all’interno di una vena coagula spontaneamente. Questo fenomeno si verifica in una percentuale compresa fra il 3 e l’11% della popolazione generale, e le aree più colpite sono gli arti, soprattutto inferiori.

Si tratta di una patologia conosciuta anche con altri termini, come “flebite” o “tromboflebite superficiale”. Il termine “trombosi venosa superficiale”, però, è più corretto. Per semplicità, possiamo abbreviarlo con l’acronimo TVS.

Perché avviene questa coagulazione improvvisa del sangue? I motivi possono essere diversi. Tuttavia, ciò che contraddistingue la trombosi venosa superficiale è la sede della trombosi.
Le vene colpite, infatti, sono tutte superficiali. In particolare, esse si trovano nel tessuto sottocutaneo al di sopra della fascia che avvolge i muscoli. Questo differenzia la trombosi superficiale dalla trombosi venosa profonda (le vene profonde si trovano all’interno dei muscoli).

le vene colpite da trombosi venosa superficiale si trovano sopra la fascia muscolare

Trombosi venosa superficiale: meccanismi e cause

I meccanismi attraverso i quali si sviluppa una trombosi venosa superficiale sono principalmente tre. Essi sono il danno all’endotelio (lo strato di cellule vascolari a contatto diretto con il sangue), le alterazioni del flusso del sangue e le alterazioni della coagulazione del sangue.

Le cause della trombosi venosa superficiale invece sono molteplici, e agiscono attivando i meccanismi visti sopra.
Possiamo divederle in due gruppi. Da una parte ci sono le trombosi su vene varicose, dall’altra le trombosi su vene sane (non varicose).

Vene varicose

La presenza di vene varicose è la causa più frequente di trombosi venosa superficiale.
Cosa sono le vene varicose? Si tratta di vene dilatate e sporgenti che si sviluppano a livello delle gambe nelle persone che soffrono di insufficienza venosa. Questa malattia, legata a fattori genetici e ambientali e più frequente nelle donne, si caratterizza proprio per la perdita di funzione drenante delle vene.

Le vene varicose sono la causa più frequente di tromboflebite

In presenza di vene varicose la trombosi venosa superficiale ha una alta probabilità di verificarsi, soprattutto d’estate quando la temperatura esterna si alza. Il motivo è legato al rallentamento del flusso del sangue.
Infatti, le vene si comportano come dei tubi. Più fa caldo e più si dilatano, e più si dilatano meno velocemente il sangue scorre al loro interno. Se il sangue scorre lentamente, tende a coagulare di più.

La prevenzione della trombosi venosa superficiale è uno dei motivi per cui è opportuno trattare le vene varicose (come vedremo più avanti).

Vene non varicose

Se la trombosi venosa superficiale colpisce una vena non varicosa, le cause possono essere svariate. Vediamole una per una.

Neoplasie

L’associazione tra neoplasie e trombosi è nota da molto tempo. La forma più frequente di trombosi nei pazienti con neoplasia è proprio la trombosi venosa, che è presente nel 10-20% dei casi.

In che modo le neoplasie possono provocare una trombosi venosa superficiale?
Il primo fattore che entra in gioco è l’aumentata coagulabilità del sangue.
Le cellule tumorali, infatti, producono direttamente delle molecole che favoriscono la coagulazione del sangue. Questo processo chiama successivamente in causa anche le piastrine, che a loro volta amplificano il processo di trombosi.
Inoltre, il sangue tende a coagulare a causa di disidratazione, malnutrizione o altre condizioni critiche che si possono osservare nelle persone con gravi neoplasie.

Il secondo fattore è il rallentamento della circolazione sanguigna. I pazienti con neoplasia, infatti, possono restare a letto per molto tempo, per le condizioni critiche o perché hanno subito un intervento chirurgico. L’assenza di movimento delle gambe provoca ristagno di sangue e quindi maggiore tendenza alla coagulazione.

Il terzo fattore, cioè il danno endoteliale, può essere provocato direttamente dalle metastasi, ma anche dal posizionamento di cateteri per la chemioterapia oppure dai farmaci chemioterapici stessi.

Quali sono i tumori che più spesso provocano trombosi?
Vale la pena ricordare i tumori del pancreas, dello stomaco, dei polmoni, oltre che i tumori cerebrali, renali e ovarici.
I soggetti più a rischio sono le donne, specie se di età avanzata, e in generale i pazienti con maggiori complicazioni.

Trombofilia

Con il termine trombofilia intendiamo un insieme di condizioni genetiche e acquisite che provocano una maggiore propensione alla trombosi. Si tratta di una causa importante di trombosi venosa superficiale.
Quando è presente, la trombofilia aumenta anche il rischio che la trombosi si estenda alle vene profonde, o che si verifichi una seconda trombosi a distanza di breve tempo. Chiamiamo questo secondo fenomeno “recidiva”.

Soffermiamoci un po’ di più sulle condizioni genetiche che favoriscono la trombofilia.
Si tratta di mutazioni ereditarie dei geni coinvolti nella coagulazione del sangue. Molto semplicemente, le mutazioni di questi geni rendono più attivi i fattori della coagulazione nelle persone affette. Un esempio è la famosa mutazione del quinto fattore, chiamata fattore di Leiden.

Come si scopre se c’è una trombofilia ereditaria?
Bisogna fare dei test genetici, che sono piuttosto costosi. Le linee guida, però, raccomandano di non effettuare questi test di routine, ma solo se c’è il concreto sospetto di trombofilia.

Ma allora quando dobbiamo sospettare una trombofilia?
Se la trombosi venosa superficiale colpisce vene non varicose e abbiamo escluso la presenza di una neoplasia, la trombofilia è la prima causa da considerare. Lo stesso vale se la trombosi progredisce nonostante il paziente stia assumendo una terapia anticoagulante.

Anche quando la trombosi colpisce la safena e questa non mostra segni di insufficienza venosa, bisogna sospettare una trombofilia. Essa, infatti, è presente nel 50% di questi casi.

Infine, se la trombosi venosa superficiale colpisce pazienti di età inferiore ai 40-45 anni e con storia familiare di trombosi, va sempre sospettata una trombofilia.

In questi casi è opportuno procedere con i test.

Gravidanza

In gravidanza la donna ha un rischio di sviluppare una trombosi cinque volte maggiore rispetto alla donna non gravida. Questo accade per gli stessi meccanismi visti in precedenza, con alcune peculiarità legate proprio allo stato di gestazione.

Inoltre, in gravidanza si osserva spesso un peggioramento dell’insufficienza venosa e una maggiore dilatazione delle vene varicose. Questo favorisce a sua volta l’insorgenza di una trombosi venosa superficiale.

Per saperne di più sulla trombosi in gravidanza puoi cliccare qui.

Terapia ormonale

Gli ormoni sessuali femminili riducono il tono delle vene e fanno così diminuire la loro attività propulsiva. Di conseguenza, il sangue si muove più lentamente, favorendo l’innesco della trombosi.
Il rischio aumenta se la paziente fuma.

Per quanto riguarda la pillola anticoncezionale, essa è notoriamente un fattore di rischio per la trombosi venosa profonda, mentre non è chiaro se abbia un’associazione diretta con la trombosi venosa superficiale.

Morbo di Buerger

Questa grave patologia infiammatoria danneggia in maniera progressiva le arterie piccole e medie degli arti, provocando ostruzione, trombosi e spesso necessità di amputazione.
Colpisce pressoché esclusivamente i giovani maschi fumatori ed è diversa dall’aterosclerosi.

Tra le manifestazioni del morbo di Buerger, nel 16% dei casi si osservano trombosi venose superficiali progressive. La presenza di questa complicanza indica uno stato infiammatorio particolarmente grave. Inoltre, la presenza di trombosi venosa superficiale preclude la possibilità di operare questi pazienti con un bypass arterioso, di norma effettuato proprio utilizzando le vene sottocutanee.
La cessazione del fumo ha un sorprendente effetto di miglioramento clinico su questa patologia.

Sindromi immunologiche

La trombosi venosa superficiale si può osservare in alcune particolari sindromi immunologiche.

Sindrome di Trousseau

Questa sindrome clinica è caratterizzata da trombosi venose superficiali ricorrenti agli arti superiori e inferiori. Essa si associa tipicamente ad alcune neoplasie come tumori cerebrali, adenocarcinomi del tratto gastrointestinale (stomaco, colon e pancreas), adenocarcinomi polmonare, mammario, ovarico e prostatico. Sembra essere dovuta ad una iper-coagulabilità del sangue.

Sindrome di Mondor

Si tratta di una condizione rara che colpisce soprattutto le donne. Si manifesta con multiple trombosi venose superficiali delle vene del torace, soprattutto nelle regioni anteriore e posteriore.
Le cause non sono note. Sembra, tuttavia, che giochino un ruolo i traumi, l’uso di contraccettivi orali, e alcune forme di trombofilia.

Traumi o iniezione di sostanze irritanti

Il posizionamento di un catetere venoso per l’infusione di farmaci o un semplice prelievo del sangue possono a volte provocare una trombosi venosa superficiale. Questo avviene per un danno diretto alle cellule endoteliali delle vene.

Un prelievo di sangue può raramente causare una trombosi venosa superficiale

Il danno può essere dovuto all’azione meccanica del catetere o dell’ago oppure al danno chimico della sostanza iniettata. Quest’ultimo caso riguarda, ad esempio, i farmaci usati nella chemioterapia dei tumori e le sostanze stupefacenti iniettate per via endovenosa.

Trombosi venosa superficiale: conseguenze

I percoli principali legati a una trombosi venosa superficiale sono l’estensione della trombosi e le embolie. Il terzo problema sono le possibili recidive.

Estensione della trombosi

Consiste nella progressione del processo di coagulazione dalle vene superficiali a quelle profonde. Ciò avviene perché questi due compartimenti sono in comunicazione tra loro.
Le vene superficiali, infatti, confluiscono in quelle profonde in punti ben precisi come l’inguine e il cavo popliteo (la zona che sta dietro il ginocchio). Ci sono anche molte altre connessioni, realizzate attraverso alcune particolari vene chiamate vene perforanti. Esse attraversano i muscoli dalla superficie alla profondità connettendo i due sistemi venosi.

Tra i pazienti con trombosi venosa superficiale, una percentuale tra il 6 e il 40% ha anche una concomitante trombosi venosa profonda. Se la trombosi superficiale si verifica su vene non varicose, la probabilità di un simultaneo coinvolgimento alle vene profonde aumenta.
Le percentuali variano leggermente nei vari studi, ma ci fanno comunque capire che si tratta di una possibilità non rara.

Quando una trombosi venosa superficiale si estende alle vene profonde, il pericolo di embolie aumenta. Vediamo di cosa si tratta e perché è un rischio da evitare assolutamente.

Embolie

Si parla di embolia quando un frammento di sangue coagulato si stacca dalla sede di trombosi e segue la circolazione del sangue. Arrivato al cuore, l’embolo più probabilmente andrà a finire ai polmoni, ostruendo la circolazione e creando così un grave pericolo per la vita. Si tratta dell’embolia polmonare.

Anche se la trombosi è superficiale può verificarsi un'embolia
Se invece il cuore ha delle malformazioni, l’embolo potrebbe anche passare direttamente nelle arterie. A questo punto finirebbe per ostruire un vaso cerebrale oppure si bloccherebbe a livello degli arti. In questo caso si parla di embolia paradossa.

Secondo una recente metanalisi, nel 18% circa dei casi di trombosi venosa superficiale si verifica un’embolia polmonare.
Come abbiamo visto, il coinvolgimento di una vena profonda aumenta il rischio di embolie, ma questa complicanza può verificarsi anche se la trombosi resta in superficie. Ecco perché, come vedremo dopo, in caso di trombosi venosa superficiale è generalmente opportuno fare una terapia anticoagulante

Recidive

La trombosi venosa superficiale può recidivare se non ne viene identificata e rimossa la causa.
In caso di trombosi su vene varicose, la cura è l’intervento alle varici.
Se la trombosi si verifica su vene non varicose, il rischio di recidiva è di per sé già aumentato. Come abbiamo visto, vanno ricercate ed escluse le principali cause (neoplasie e trombofilia).

Trombosi venosa superficiale: come si riconosce?

La trombosi venosa superficiale è semplice da diagnosticare. Si manifesta con un indurimento e un arrossamento lungo il decorso della vena interessata, che di solito diventa anche dolente. Questo quadro clinico è dovuto all’infiammazione scatenata dalla coagulazione anomala del sangue.

In presenza di questi sintomi è indicato eseguire un ecocolordoppler venoso. Questo esame ha due funzioni: confermare o meno la presenza della trombosi ed escludere il coinvolgimento delle vene profonde. Si tratta di una procedura rapida, poco costosa e senza rischi per il paziente.

L'ecodoppler è l'esame fondamentale nel sospetto di trombosi

Che altre informazioni dà l’ecodoppler?
Consente di stimare l’estensione della trombosi e, in particolare, vedere se sono coinvolte le vene safene. Queste vene decorrono tra le vene di superficie e il piano muscolare, e sono strettamente collegate con le vene varicose. L’eventuale coinvolgimento delle vene safene, come vedremo più avanti, cambia l’approccio terapeutico.
L’ecodoppler permette inoltre di capire se la trombosi è recente o meno, a seconda di quanto il sangue coagulato riflette gli ultrasuoni.

Trombosi venosa superficiale: perché e come si cura?

I motivi per cui è opportuno trattare la trombosi venosa superficiale sono tre. Bisogna prevenire l’estensione della trombosi ed evitare le embolie, favorire per quanto possibile la riapertura della vena e alleviare i sintomi.
Questi effetti si ottengono rispettivamente con terapia anticoagulante, calza elastocompressiva e farmaci antinfiammatori e topici, rispettivamente.

Aggiungiamo un paio di considerazioni.
La terapia con antibiotici non è indicata in quanto la trombosi non è un fenomeno infettivo (purtroppo a volte si vede prescrivere ancora).
Quando la trombosi venosa superficiale è dovuta al posizionamento di un catetere per infusione, è indicato rimuoverlo.

Vedremo poi quando è indicato il trattamento chirurgico nei casi di trombosi venosa superficiale su vene varicose.

Terapia anticoagulante

Questa terapia sfrutta la capacità di alcuni farmaci di bloccare selettivamente la coagulazione del sangue. Ci sono le eparine per via sottocutanea e gli anticoagulanti orali.

Eparine

Le eparine per via sottocutanea rappresentano il principale trattamento per la trombosi venosa superficiale. Si tratta di sostanze anticoagulanti che si somministrano attraverso piccole punture appena sotto la cute, di solito sulla pancia. Ce ne sono di diverso tipo, e vari studi ne hanno indagato gli effetti in relazione al dosaggio.

L'eparina a basso peso molecolare è il trattamento di scelta per la TVS
Da notare che si misurano in unità internazionali (UI) e si possono somministrare una o due volte al giorno.

Eparina non frazionata – si tratta della molecola di eparina più grezza.
Uno studio ne ha esaminato l’effetto su un piccolo campione di soggetti con trombosi venosa superficiale. Si è osservata una minore frequenza di embolie polmonari nei casi trattati con alto dosaggio (12500 UI due volte al giorno) rispetto a quelli trattati con basso dosaggio (5000 UI due volte al giorno).
Non è comunque il farmaco di scelta per la trombosi venosa superficiale.

Enoxaparina – questa molecola fa parte delle eparine a basso peso molecolare.
Gli studi hanno mostrato che dosi basse ed elevate danno lo stesso risultato in termini di diminuzione di embolia polmonare, recidive ed estensione della trombosi.
Quindi, è sufficiente una dose profilattica di Enoxaparina (4000 UI al giorno) per 4 settimane per ottenere una protezione efficace.

Fundaparinux – anche questa molecola, al dosaggio di 2,5 mg al giorno, ha mostrato riduzione significativa delle embolie e dell’estensione della trombosi, oltre che miglioramento dei sintomi.
Il confronto è stato fatto con il placebo in un ampio studio che ha esaminato oltre 3000 pazienti con trombosi venosa superficiale.

Si tratta, come ribadiremo più avanti, del farmaco di scelta per il trattamento della trombosi venosa superficiale nei pazienti a basso rischio embolico.
Infatti, le linee guida del 2012 redatte dall’American College of Chest Physicians consigliano il Fundaparinux (2,5 mg al giorno per 45 giorni) piuttosto dell’Enoxaparina in caso di trombosi venosa superficiale degli arti inferiori, se estesa per almeno 5 cm.

Anticoagulanti orali

Sono farmaci che si assumono per bocca, solitamente quando dobbiamo trattare la trombosi venosa profonda.
Esistono di due tipi di anticoagulanti orali. Ci sono i dicumarolici e i farmaci di nuova generazione, chiamati DOAC’s.

Dicumarolici – sono i vecchi farmaci anticoagulanti che richiedono ripetuti prelievi del sangue per controllarne il corretto dosaggio.

DOAC’s (Direct Oral Anti Coagulants) – si tratta di farmaci di ultima generazione che non hanno bisogno di alcun prelievo ematico. Anche in questo caso, sono comunemente usati nella trombosi venosa profonda.

Si possono usare questi farmaci nella trombosi venosa superficiale? La risposta è no. L’unica eccezione esiste quando la trombosi giunge a ridosso delle vene profonde, di solito a 3 cm o meno. In questo caso la trombosi va considerata a tutti gli effetti come se fosse una trombosi venosa profonda.

Negli altri casi, l’uso degli anticoagulanti orali è oggetto di studio per quanto riguarda i farmaci di ultima generazione.
Una recente metanalisi ha mostrato efficacia dei DOAC’s nella prevenzione dell’embolia polmonare e nella diminuzione delle recidive in pazienti con trombosi venosa superficiale. In questo studio essi sono stati confrontati con i Dicumarolici, e hanno anche dimostrato minore rischio di sanguinamento (un problema comune a molti anticoagulanti).

Un altro studio ha comparato un appartenente alla famiglia dei DOAC’s, il Rivaroxaban al dosaggio di 10 mg al giorno, con il Fundaparinux da 2,5 mg. Sono stati trattati casi di trombosi venosa superficiale sotto il ginocchio estese per almeno 5 cm.
Si sono rilevate similari efficacia e sicurezza tra i due farmaci. Tuttavia, il Rivaroxaban non è attualmente raccomandato nel trattamento della trombosi venosa superficiale.

Calza elastica

La calza elastica è un dispositivo medico che esercita una compressione esterna sull’arto, favorendo lo scioglimento della trombosi e la remissione dei sintomi.
In caso di trombosi venosa superficiale, le linee-guida consigliano di indossarla associandola però alla terapia anticoagulante. Infatti, se usata in assenza di trattamento farmacologico non dà gli stessi risultati.

Che tipo di calza elastica bisogna usare?
Ci sono diversi tipi di calza elastica e ciascuno ha le sue funzioni (ne ho parlato qui). In caso di trombosi venosa superficiale bisogna usare una calza elastica terapeutica a compressione graduata.

In caso di trombosi venosa superficiale va applicata una calza elastica

Cosa significano queste due definizioni?
La tipologia d calza deve esercitare una pressione ben precisa sull’arto (terapeutica) e questa pressione deve decrescere dalla caviglia alla coscia (compressione graduata). Negli studi analizzati essa è stata applicata per tre settimane.

Eparinoidi topici

Sono farmaci che si applicano sotto forma di pomate direttamente nella zona colpita da trombosi. Agiscono riducendo l’infiammazione attorno alla vena e alleviando i sintomi.
Non c’è evidenza che riducano il rischio di embolie o di trombosi recidive.

FANS

Sono i farmaci antinfiammatori non steroidei che si usano comunemente per il dolore.
Alcuni studi hanno mostrato che essi riducono sia l’estensione della trombosi sia la frequenza di recidive se comparati con il placebo, ma in misura minore rispetto alle eparine. Ciò è dovuto alla loro azione sulle piastrine, che sotto il loro effetto tendono ad attivarsi di meno mantenendo il sangue un po’ più fluido.

I FANS sono indicati se la trombosi venosa superficiale è poco estesa (meno di 5 cm) e se c’è un basso rischio trombo-embolico.

Terapia chirurgica

Può servire un intervento chirurgico in caso di trombosi venosa superficiale?
Se le vene colpite sono non varicose, la chirurgia è sconsigliata perché non risolverebbe il problema.
In queste situazioni, infatti, è indicata la terapia anticoagulante. Questo vale a maggior ragione in presenza di concomitante trombosi venosa profonda o embolia polmonare.

Se le vene sono varicose, il discorso è diverso.
Dobbiamo distinguere la fase acuta della trombosi dalla fase stabilizzata.

Fase acuta

Quando la trombosi è in fase acuta, cioè si è appena verificata, l’obiettivo dell’intervento chirurgico dovrebbe essere quello di alleviare i sintomi e bloccare la progressione del trombo nelle vene profonde. Per questo sono state studiate diverse procedure chirurgiche per capire se portassero un reale beneficio.

Gli studi in letteratura, a tale proposito, sono molteplici.
I risultati hanno mostrato che, in effetti, nella fase acuta la chirurgia sembra alleviare i sintomi e l’estensione della trombosi venosa superficiale. Il livello di evidenza, però, è risultato basso.
D’altra parte, in termini di coinvolgimento delle vene profonde ed embolia, non sembra esserci un reale vantaggio della chirurgia rispetto alla terapia anticoagulante.
Dobbiamo anche tenere presente che effettuare un intervento nella fase acuta potrebbe essere addirittura controproducente. Alcuni studi, infatti, mostrano che il trauma chirurgico attiverebbe paradossalmente la coagulazione del sangue provocando embolie.

In conclusione, nella fase acuta della trombosi venosa superficiale il trattamento che generalmente si consiglia è la terapia anticoagulante.

C’è però una situazione particolare, che abbiamo in parte visto prima.
Essa si verifica quando la trombosi venosa superficiale coinvolge le vene safene giungendo a ridosso della loro confluenza con le vene profonde. In questo caso, il trombo potrebbe estendersi facilmente al sistema venoso profondo e l’interruzione chirurgica della vena colpita potrebbe essere utile ad evitarlo.

Anche questa situazione è stata molto dibattuta in letteratura.
Secondo le attuali linee-guida italiane, sia la legatura/asportazione chirurgica della vena sia la terapia anticoagulante sono in questi casi soluzioni applicabili. Infatti, non ci sono studi che abbiano chiaramente dimostrato la superiorità di una terapia rispetto all’altra.
Nella pratica clinica, tuttavia, anche in questa condizione si tende a preferire la terapia anticoagulante. Essa, come abbiamo visto, va somministrata ad alto dosaggio come si fa nella trombosi venosa profonda.

Fase stabilizzata

Dopo la che la trombosi venosa superficiale si è stabilizzata è opportuno intervenire chirurgicamente asportando le vene varicose. In questo modo si prevengono efficacemente le trombosi recidive.

L’intervento può consistere nella chiusura di un breve tratto di safena, ad esempio con il laser. Questa procedura si può associare o meno alla rimozione delle varici attraverso piccolissime incisioni (flebectomia ambulatoriale).

Trombosi venosa superficiale: indicazioni terapeutiche

Riassumiamo quindi le principali indicazioni terapeutiche in caso di trombosi venosa superficiale.

1. Trombosi poco estesa (meno di 5 centimetri), localizzata sotto il ginocchio e lontana da vene perforanti e safene: la terapia si può limitare a pomate eparinoidi, FANS e utilizzo di calza elastica.

2. Trombosi estesa per oltre 5 centimetri, o coinvolgente le vene safene o ancora in presenza di un maggiore rischio di embolie per qualsivoglia motivo: opportuna terapia anticoagulante (Fundaparinux 2,5 mg al giorno per 45 giorni).

3. Trombosi che giunge a ridosso delle vene profonde (3 cm o meno): terapia anticoagulante a dosaggio alto per almeno 3 mesi.

Conclusioni

La trombosi venosa superficiale è una patologia da non sottovalutare.
Abbiamo visto, infatti, che può complicarsi con una embolia polmonare, anche se con minore probabilità rispetto alla trombosi venosa profonda.

In presenza di sintomi, soprattutto se si è soggetti predisposti, bisogna effettuare quanto prima un ecodoppler venoso. L’esame serve a confermare la diagnosi e a ottenere informazioni importanti per scegliere la terapia idonea.

Questa patologia può anche essere la spia di problemi gravi come la trombofilia o un tumore. D’altra parte, una volta trattata la trombosi, è opportuno eliminare le cause che l’hanno provocata per non incorrere in una recidiva.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6880617/pdf/jvb-18-e20180105.pdf

https://journal.chestnet.org/action/showPdf?pii=S0012-3692%2812%2960129-9

https://www.sdb.unipd.it/sites/sdb.unipd.it/files/Anfiologia%20Flebologia%20Linne%20Guida%202016.pdf

https://www.journal-of-cardiology.com/action/showPdf?pii=S0914-5087%2818%2930061-3

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/28613608/

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/jth.12986

Vaccino AstraZeneca e trombosi: cosa sappiamo?

La sospensione temporanea del vaccino AstraZeneca a seguito di sporadici episodi di trombosi ha provocato una forte preoccupazione nella popolazione del nostro paese.
Questi eventi hanno indotto gli organi competenti a interrompere le somministrazioni e far luce su quanto accaduto, per poi dare nuovamente il via libera al vaccino dopo le verifiche del caso.

Ciononostante, molte persone in attesa della vaccinazione sono preoccupate e chi ha fattori di rischio per trombosi non sa come comportarsi.
Inoltre, i media forniscono informazioni spesso imprecise, contribuendo ad aumentare la confusione tra le persone.

Esiste un maggior rischio legato al vaccino nelle persone che hanno problemi di trombosi? In questi casi la vaccinazione è consigliata oppure no?

Per rispondere a queste domande ho analizzato lo stato attuale delle conoscenze su SARS-CoV-2, vaccino Astrazeneca e trombosi, e le principali indicazioni in materia fornite dagli organi competenti.

Covid-19 e problemi di coagulazione

Il virus SARS-CoV-2, responsabile della pandemia Covid-19, può provocare una grave forma di insufficienza respiratoria, con esito anche fatale.
Sin dalle prime fasi dell’epidemia, però, si è capito che questa malattia provoca soprattutto una disfunzione dell’endotelio dei vasi sanguigni.

Cos’è l’endotelio? Si tratta di un tessuto vascolare che si trova direttamente a contatto con il sangue e le cui cellule svolgono importanti funzioni, come la regolazione dell’infiammazione e della coagulazione ematica.

Il Covid-19 colpisce l'endotelio dei vasi sanguigni

Il virus SARS-CoV-2 sfrutta un particolare enzima dei nostri tessuti, chiamato ACE-2, attraverso il quale entra nelle cellule bersaglio e le infetta.
Le cellule più ricche di questa molecola sono quelle dell’endotelio e del cuore, e questo spiegherebbe perché nei pazienti colpiti da Covid-19 si osserva un’estesa disfunzione vascolare, più di quanto accada nei pazienti con virus dell’influenza.

Come si manifesta questo danno vascolare?
Quando il virus infetta le cellule, queste rispondono producendo molecole-segnale che attivano la risposta infiammatoria e la coagulazione del sangue, con lo scopo di combattere l’infezione.

Generalmente questa risposta è auto-limitante, ma nel caso del Covid-19, a causa delle particolari caratteristiche del virus, essa ha un’intensità maggiore.
A dimostrazione di questo, i pazienti affetti da forme gravi di Covid-19 presentano nel sangue alti livelli di fibrinogeno, FDP e D-dimero, tutte molecole coinvolte nel processo coagulativo.

La conseguenza di questa diffusa alterazione dei vasi sanguigni può essere una trombosi, che colpisce arterie, vene e capillari e che potenzialmente danneggia gli organi interni come il cuore e i polmoni.
Tra l’altro, si è osservato che contrarre la malattia costituisce un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di ictus cerebrale.

Covid-19 e trombosi venosa

Cosa succede invece nelle vene delle gambe?
Nelle autopsie dei pazienti deceduti per Covid-19 si sono osservate, oltre a trombosi dei vasi sanguigni polmonari, anche segni di trombosi venosa profonda degli arti inferiori.
Questa patologia compare generalmente in acuto a seguito di gravi traumi o fratture, o ancora dopo interventi chirurgici, neoplasie o prolungata immobilizzazione a letto.

Il rischio principale di una trombosi venosa profonda consiste nel distacco di un coagulo, che seguendo la circolazione del sangue finisce per ostruire i vasi polmonari.
La conseguenza di questo fenomeno è l’embolia polmonare, una grave sindrome clinica caratterizzata da difficoltà a respirare che può essere anche fatale.

Gli studi di cui disponiamo ad oggi mostrano che, nei pazienti ospedalizzati per Covid-19, c’è un’aumentata incidenza di trombosi venosa profonda ed embolia polmonare.
La percentuale arriva al 20-25% dei casi e riguarda maggiormente i pazienti in terapia intensiva o comunque in condizioni gravi, come documentato da un recente studio olandese.
Inoltre, un dato particolarmente significativo è che molti pazienti hanno sviluppato trombosi venose nonostante la profilassi con somministrazione di eparina.

Ma siamo certi che nei pazienti gravi la causa della trombosi sia proprio il Covid-19?
Di certo è vero che uno stato settico, cioè una risposta infiammatoria generalizzata dell’organismo, favorisce in generale i fenomeni di coagulazione, ma si è anche osservato un maggiore numero di trombosi nei pazienti infettati da Covid-19 rispetto ad altri di pari gravità ma con altre cause di sepsi.
Per quanto riguarda l’incidenza di trombosi venosa dopo la dimissione dall’ospedale, non ci sono al momento dati sufficienti.

Ciò che non conosciamo ancora è l’incidenza della trombosi venosa nella popolazione globale di pazienti colpiti da Covid-19 (la conosciamo solo tra gli ospedalizzati), così come non è chiaro quali siano, tra i pazienti positivi, quelli maggiormente a rischio di trombosi venosa.

Le incognite sono tante, ma sembra esserci un chiaro legame tra infezione da SARS-CoV-2 e fenomeni di eccessiva coagulazione del sangue.
Per questo motivo si è iniziato precocemente a trattare i pazienti più gravi con la terapia anticoagulante.

Vaccino AstraZeneca: come funziona

Il vaccino AstraZeneca è un vaccino monovalente composto da un Adenovirus ricombinante dello scimpanzè, reso incapace di replicarsi, che funge da vettore per la sintesi della glicoproteina S del SARS-Cov-2.
Detta in termini più semplici, dentro il vaccino c’è un virus animale, inattivo, che trasporta un pezzo del SARS-Cov-2 sotto forma di informazione genetica, con lo scopo di “presentarlo” al nostro organismo affinché questo attivi una risposta immunitaria.

Infatti, una volta somministrato il vaccino, l’espressione della proteina virale stimola una risposta immunologica sia anticorpale che cellulare, che servirà a proteggere l’organismo dall’infezione.

Nel nostro paese il vaccino AstraZeneca viene somministrato ai soggetti di età superiore ai 18 anni in due sessioni distinte, intervallate tra loro da un periodo che varia da 4 a 12 settimane.
Gli eccipienti contenuti nella preparazione sono una quantità minima di sodio e di etanolo.

La durata della protezione di questo vaccino non è nota, in quanto sono ancora in corso studi volti ad accertare questo dato.

Vaccino AstraZeneca: i casi di trombosi

Il 18 marzo 2021 il comitato di sicurezza dell’EMA (European Medicines Agency), denominato PRAC, si è riunito in una sessione straordinaria per far luce su alcuni rari casi di trombosi verificatisi a seguito della somministrazione del vaccino AstraZeneca.
Per analizzare efficacemente quanto avvenuto, i membri di questo comitato si sono interfacciati con esperti di malattie del sangue e istituzioni sanitarie, come l’MHRA del Regno Unito.

Cosa è accaduto?
Alla data del 16 marzo, circa 20 milioni di persone avevano ricevuto il vaccino AstraZeneca in un’area geografica comprendente il Regno Unito e l’EEA (Economic European Area).

All’interno di questa popolazione si sono osservati 7 casi di CID (coagulazione intravasale disseminata) e 18 casi di trombosi del seno cavernoso cerebrale (chiamata in inglese CVST), per un totale di 9 decessi.
Queste complicanze sono insorte all’interno dei 14 giorni successivi alla vaccinazione (prevalentemente dopo i primi 3 giorni), e i pazienti colpiti erano per lo più di sesso femminile e di età inferiore ai 55 anni.

In cosa consistono queste forme di trombosi?
Di seguito le analizzeremo nel dettaglio per capire come si differenziano dalle trombosi legate a problemi venosi delle gambe.

CID

La Coagulazione Intravasale Disseminata è una grave sindrome clinica caratterizzata da una attivazione generalizzata della coagulazione del sangue, che determina una trombosi diffusa dei vasi sanguigni di piccolo e medio calibro.
Le conseguenze di questa patologia possono essere una disfunzione multi-organo e un sanguinamento massivo, causato dal consumo eccessivo dei fattori della coagulazione.

Quali sono le cause?
Questa sindrome può verificarsi in seguito a gravi infezioni, neoplasie solide o tumori delle cellule del sangue, o ancora traumi, rottura di aneurismi o malattie del fegato.

In caso di gravi infezioni, ad esempio, la risposta infiammatoria dell’organismo attiva massivamente la coagulazione del sangue attraverso le sue molecole segnale, provocando sepsi e disfunzione dei vari organi.
A seguito di neoplasie come le leucemie, al contrario, viene attivato maggiormente il sistema opposto a quello coagulativo, che è responsabile dello scioglimento dei coaguli.
In questo caso, il sintomo prevalente sarà il sanguinamento incontrollato.

CVST

La Trombosi del Seno Cavernoso Cerebrale è una rara causa di ictus cerebrale, causata dalla coagulazione improvvisa del sangue all’interno di una importante vena situata nel cranio e deputata a raccogliere il sangue dal cervello.

Ogni anno si verificano da 2 a 5 casi di CVST per ogni milione di persone, e si tratta per lo più di donne di età relativamente giovane.
I sintomi di esordio di questa grave sindrome sono intensa cefalea, convulsioni e problemi neurologici come paralisi o perdita della sensibilità agli arti.

Da cosa è provocata?
Le cause non sono note, ma la CVST sembra correlarsi a preesistenti problemi di coagulazione del sangue, traumi, utilizzo di pillola anticoncezionale o presenza di tumori.
Un recente studio eseguito negli ospedali della città di New York, inoltre, ha analizzato 3 casi di CVST riscontrati in pazienti affetti da Covid-19.
Seppur con caratteristiche diverse (erano colpiti anche maschi), si ipotizza che l’infezione da SARS-CoV-2 possa rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di questa grave patologia.

Vaccino AstraZeneca e trombosi: le attuali indicazioni

La riunione straordinaria del PRAC ha messo in luce che i benefici del vaccino AstraZeneca superano di gran lunga i rischi legati all’infezione da SARS-CoV-2, e pertanto la campagna vaccinale ha ripreso il suo iter.

Il vaccino non risulta essere associato ad un aumento globale del rischio di trombosi ed embolie nei soggetti riceventi, né c’è evidenza di problemi relativi a particolari lotti di farmaco o siti di produzione malfunzionanti.
Questo significa che, al momento, non c’è alcuna evidenza che soggetti a rischio di trombosi venosa (pregresse trombosi venose, mutazioni genetiche predisponenti, assunzione di pillola anticoncezionale, storia di flebiti e vene varicose) siano a maggior rischio di tali eventi se si vaccinano.

Infatti, il numero di casi di trombosi ed embolia verificatisi dopo il vaccino è risultato addirittura inferiore a quello atteso nella popolazione generale; rimane solamente, a giudizio del PRAC, qualche preoccupazione nei pazienti più giovani.

Sempre in base a quanto appurato dal comitato, il vaccino potrebbe essere associato a casi estremamente rari di CID con bassi livelli di piastrine, con o senza episodi di sanguinamento, e di CVST.
Infatti, per quanto riguarda queste particolari forme di trombosi, il numero di casi riscontrati dopo la vaccinazione è risultato superiore a quello atteso nella popolazione generale.
Il nesso causale non è provato, ma non si può al momento escludere con certezza.

Il 19 marzo 2021 l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha preso atto della riunione straordinaria del PRAC e ha emesso a sua volta una circolare, che di fatto ha permesso di riprendere la vaccinazione con AstraZeneca nel territorio nazionale.

Il 22 marzo, infine, il NIH (National Institutes of Health) ha riportato i risultati provenienti da AstraZeneca e relativi ad un ampio studio condotto negli Stati Uniti e in Sud America, che confermerebbe l’efficacia protettiva del vaccino nei confronti della malattia Covid-19, ribadendone la buona tollerabilità.
In particolare, lo studio è stato analizzato dal DSMB, un organo americano indipendente che monitora dati e sicurezza degli studi scientifici, con un focus specifico anche sui fenomeni di trombosi.
Il risultato emerso è che, in questo ampio studio, non c’è evidenza di un aumento del rischio generico di trombosi e di sviluppo di CVST nei pazienti che hanno ricevuto il vaccino AstraZeneca.

A onor del vero, il 23 marzo lo stesso DSMB ha espresso preoccupazione relativamente alla presenza, all’interno dello studio, di dati obsoleti che potrebbero aver inficiato le conclusioni sull’efficacia del vaccino, invitando l’azienda produttrice a fare chiarezza in merito.
La situazione è in continua evoluzione, e allo stato attuale il vaccino AstraZeneca è in attesa di approvazione da parte della FDA per essere utilizzato negli Stati Uniti.

Conclusioni

L’infezione da SARS-CoV-2 si associa ad un’aumentata tendenza alla trombosi e può risultare particolarmente pericolosa in pazienti con fattori di rischio predisponenti.
Di conseguenza, le persone che hanno avuto trombosi venose in passato o che hanno familiarità, mutazioni geniche predisponenti o ancora soffrono di flebiti ricorrenti o problemi venosi, sono maggiormente destinate a beneficiare della vaccinazione.

Bisogna ricordare, poi, che il termine “trombosi” è piuttosto generico. Infatti, la CID e la trombosi del seno cavernoso cerebrale sono sindromi trombotiche rare, completamente diverse dalle trombosi venose delle gambe sia per cause e caratteristiche cliniche che per tipologia di soggetti colpiti.
Leggendo i giornali, però, capita di imbattersi in titoli fuorvianti, nei quali il termine “trombosi” viene utilizzato in maniera non precisa. Questo aumenta lo stato di allarme tra i non addetti ai lavori, che spesso non hanno gli strumenti per capire realmente di cosa si stia parlando e per cercare le giuste fonti di informazione.

In conclusione, chi sa di essere a rischio di trombosi è in pericolo maggiore se sviluppa la malattia piuttosto che se si sottopone alla vaccinazione. Secondo i dati più recenti, il vaccino AstraZeneca sembra essere efficace e ben tollerato, e il nesso causale con queste rare forme di trombosi non è certo, pur essendo possibile.
Sicuramente serviranno ulteriori studi per verificare la realtà dei fatti.

Per quanto riguarda eventuali sintomi di allarme, secondo il comunicato dell’EMA bisogna richiedere assistenza medica urgente se dopo la vaccinazione compaiono mancanza di respiro, dolore toracico, gonfiore, dolore o ipotermia improvvisi ad un arto, visione offuscata o grave cefalea, sanguinamento persistente, comparsa di multipli ematomi o tumefazioni rosso-violacee sotto la cute.

Fonti

https://reader.elsevier.com/reader/sd/pii/S1050173820301286?token=17EDC37E207793B3BE673083DFE184F953D40B84C5262A8BB3B7CC84200DBF7BF531EDB2ACEE51210187AC969171C219

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https://www.ema.europa.eu/en/documents/product-information/covid-19-vaccine-astrazeneca-epar-product-information_en.pdf

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https://www.strokejournal.org/action/showPdf?pii=S1052-3057%2820%2930852-1

https://www.nih.gov/news-events/news-releases/investigational-astrazeneca-vaccine-prevents-covid-19

https://www.nih.gov/news-events/news-releases/niaid-statement-astrazeneca-vaccine

Una calza elastica correttamente prescritta può dare molto sollievo

Come scegliere, indossare e utilizzare la calza elastica in modo efficace

La calza elastica è un dispositivo medico che si utilizza per migliorare stati di cattiva circolazione e ristagno di liquidi nelle gambe, oltre che per alleviare sintomi come dolore e pesantezza.

Spesso è difficile orientarsi nella scelta della calza elastica più corretta, sia per le tante e diverse tipologie di prodotto che si trovano in commercio sia per la scarsa cultura presente su questo tema tra i sanitari.

Infatti, la calza elastica rappresenta un insieme di prodotti molto diversi tra loro, che si usano per problematiche differenti.
Spesso prescritta erroneamente, la calza elastica provoca alle volte più fastidio che beneficio, contribuendo così alla sua scarsa diffusione tra le persone che avrebbero bisogno di usarla.

In questo articolo ti spiegherò le differenze tra i vari tipi di calza elastica e ti aiuterò ad orientarti nella scelta del prodotto più adatto al tuo problema.

Cos’è la calza elastica

La calza elastica è un tutore dalla forma variabile che si applica sugli arti inferiori per supportare il sistema venoso e linfatico.
La sua funzione è di esercitare una pressione esterna sulle gambe, con lo scopo di migliorare il flusso del sangue e il drenaggio dei liquidi.

Come si ottiene questa pressione?
La calza elastica deve questa proprietà alla sua particolare fabbricazione, nella quale il tessuto viene costruito intrecciando due fili diversi.
La maglia, che costituisce l’intelaiatura principale, fornisce spessore e rigidità alla calza, mentre il filo di trama determina la pressione che il tutore eserciterà sull’arto compresso.
La calza elastica, quindi, avrà caratteristiche diverse in base ai materiali che la compongono e alla tecnica di tessitura.

La calza elastica è fabbricata con maglia e filo di trama

Una volta indossata, la calza elastica si adatta all’arto grazie all’allungamento dei suoi filati. Questo allungamento crea sul tessuto una tensione, che per mantenersi costante determinerà pressioni diverse nei vari segmenti della gamba e della coscia (questo avviene in relazione ad un importante principio fisico).
Cosa significa? A parità di tensione, dove il diametro è minore, come ad esempio alla caviglia, la pressione sarà maggiore, mentre dove il diametro è maggiore, come alla coscia, la pressione diminuirà.

Come funziona la calza elastica

Il funzionamento della calza elastica si spiega in base a due parametri importanti, cioè il dosaggio e la rigidità (meglio conosciuta con il termine inglese “stiffness”).
Queste grandezze differenziano le calze tra loro e indicano qual è il prodotto più adatto per lo specifico problema che vogliamo risolvere.

Dosaggio

Il dosaggio indica quanta pressione la calza produce sull’arto in cui viene indossata.
Per convenzione, il dosaggio di una calza elastica si riferisce alla pressione esercitata alla caviglia, e si misura in millimetri di mercurio (mmHg, la stessa unità di misura della pressione del sangue).

Il dosaggio della calza deve mantenersi costante durante la giornata, soprattutto non calare verso sera quando le gambe tendono gonfiarsi o manifestano sintomi come dolore e pesantezza.
Inoltre, se l’uso della calza è continuativo, dopo circa sei mesi il dosaggio viene meno ed è opportuno sostituire il prodotto.
Come dobbiamo regolarci? Di solito è ora di cambiare la calza se iniziamo ad indossarla con troppa facilità, proprio perché l’azione compressiva dei filati si è esaurita.

Stiffness

La “stiffness” rappresenta la capacità della calza di resistere all’espansione della gamba, cioè a quella forza che agisce in direzione opposta a quella della calza stessa.

L’arto in cui indossiamo la calza elastica, infatti, si espande durante la giornata per il fisiologico aumento del gonfiore. Questo avviene per lo più a causa della contrazione muscolare, che si verifica con i cambi di postura oppure mentre camminiamo o facciamo esercizio fisico.

A cosa serve quindi la “stiffness”? Questa domanda ci permette di spiegare meglio come funziona la pressione della calza e cosa bisogna fare per trattare una gamba gonfia.

gamba gonfia

A riposo, una calza poco elastica e molto rigida esercita meno pressione (stiamo parlando di “stiffness e non di dosaggio), ma quando iniziamo a camminare e i muscoli della gamba si contraggono, la circonferenza diventa maggiore e la pressione verso l’esterno aumenta.
La calza, essendo rigida, oppone resistenza a questa forza espansiva, e si crea una differenza di pressione tra la situazione di riposo e quella di esercizio che si trasferisce alle vene profonde del polpaccio, aiutando il flusso del sangue.
Questa importante differenza di pressione aiuta la gamba a sgonfiarsi dai liquidi in eccesso.

Viceversa, se la calza è molto elastica e poco rigida, eserciterà più o meno la stessa pressione a riposo e in movimento, proprio per le caratteristiche dei materiali che la compongono.
Non venendosi a creare la differenza di pressione necessaria, una calza poco rigida non permetterà quindi di sgonfiare la gamba (ribadiamo che questo avviene indipendentemente da quanto la calza comprime, cioè dal dosaggio).

Ma cosa determina la rigidità di una calza elastica? La “stiffness” dipende dal tessuto che compone la calza e dal tipo di tessitura utilizzata per fabbricarla; vedremo meglio questi aspetti nei prossimi paragrafi.

A cosa serve la calza elastica

Lo scopo della calza elastica è di ridurre il diametro delle vene delle gambe producendo una pressione contraria a quella del sangue.
A cosa serve questa azione? Quando avvertiamo sintomi come dolore o pesantezza alle gambe, o quando le vene si sfiancano a causa dell’insufficienza venosa, il sangue tende a ristagnare e il sistema circolatorio ha bisogno di una spinta esterna.

Secondo un principio fisico, infatti, se il diametro di una vena si riduce, il sangue al suo interno scorrerà più velocemente e i problemi legati all’insufficienza venosa diminuiranno.

Quanto bisogna ridurre il diametro delle vene per avere un miglioramento?
L’effettiva azione della calza elastica dipende dalla posizione che assumiamo, perché la pressione del sangue cambia di molto tra la posizione distesa e quella eretta.

Se siamo sdraiati, ad esempio, serve una pressione di almeno 20 mmHg per restringere in maniera significativa le vene profonde della gamba; se siamo seduti il valore sale a 50 mmHg circa e se siamo in piedi addirittura a 70-80 mm Hg.
Queste pressioni sono decisamente troppo elevate per essere trasferite in una calza elastica, che risulterebbe impossibile da indossare.
Per avere una azione terapeutica sono sufficienti pressioni minori (da 18 a 24 mmHg circa); il risultato è che le valvole venose funzionano meglio e impediscono al sangue di tornare indietro verso la caviglia.

Per lo stesso motivo, la calza elastica previene l’insorgenza della trombosi venosa, una complicanza da tenere sempre presente in presenza di vene varicose.

Un’altra azione della calza elastica è quella di ottimizzare la funzione di pompa dei muscoli del polpaccio, che aiutano il sistema venoso e linfatico a drenare l’acqua proveniente dai tessuti delle gambe.
Per questo chi soffre di gonfiore, dolore o pesantezza alle gambe potrà trarre beneficio dall’uso di una calza, purché prescritta correttamente.

Come è fatta la calza elastica

La tecnica di fabbricazione della calza elastica, e in particolare il tipo di maglia con cui viene creata, conferisce al prodotto proprietà diverse.

Maglia circolare

I macchinari che producono questo tipo di calza elastica sono costituiti da tamburi di forma circolare con pile di aghi molto sottili.
Per questo i filati che si prestano a questa tessitura sono molto fini, e le calze elastiche prodotte sono di solito esteticamente gradevoli ed eleganti.

La maglia determina sulla calza il livello di flessibilità, traspirazione e nitidezza oppure opacità, mentre il filo di trama è responsabile della pressione esercitata.

Maglia circolare rigida

La tecnica di fabbricazione è la stessa della maglia circolare, ma la distribuzione del dosaggio lungo la calza è più uniforme.

Inoltre, la calza elastica fabbricata in questo modo ha una “stiffness” leggermente maggiore.
Questo effetto si ottiene grazie ad un pattern di intreccio diverso, nel quale c’è una maggiore densità di loop (asole) ad incastro, che danno alla calza più resistenza all’espansione.

Si tratta di una calza ibrida tra la trama circolare e la trama piatta, che spesso non raggiunge livelli di compressione certificabili come terapeutici (vedremo tra poco cosa significa).

Maglia piatta

Questo tipo di calza viene prodotta con macchine a base piatta in cui gli aghi hanno una disposizione lineare, sono più grossi e per questo possono tessere fili di trama più spessi.

Di conseguenza, i filati che si prestano a questa tessitura sono più grossolani rispetto a quelli lavorati a maglia circolare. La calza prodotta è maggiormente spessa e ha una “stiffness” massima.

Tipologie di calza elastica

La calza elastica può essere classificata in base al tipo di compressione esercitata oppure in base alla sua funzione, in particolare in base a quale problema intende prevenire o risolvere.

Tipo di compressione

Esistono la calza a compressione graduata e la calza a compressione progressiva.

Calza elastica a compressione graduata

Questo tipo di calza elastica è il più utilizzato, e come vedremo più avanti appartengono a questa categoria le calze certificate come terapeutiche.

In questa calza la pressione esercitata è massima alla caviglia e decresce man mano che si sale verso la coscia. Lo scopo, infatti, è di contrastare in modo equilibrato la pressione del sangue nelle vene, che in posizione eretta è maggiore in posizione declive a causa della forza di gravità.

La calza elastica a compressione graduata si realizza solitamente con una trama piatta, creando un maggiore “stretch” nel tessuto a livello della caviglia e riducendolo via via che si sale verso la coscia (sempre per il principio fisico che abbiamo visto prima).

Calza elastica a compressione progressiva

Questa calza elastica esercita una pressione maggiore al polpaccio rispetto alla caviglia.
Come mai? Lo scopo è quello di massimizzare l’efficienza della pompa muscolare, per favorire il flusso di sangue verso il cuore.

Secondo alcuni studi, infatti, questo tipo di calza è risultato più efficace nel migliorare il flusso di sangue a livello dalle gambe, con lo svantaggio però di provocare più facilmente gonfiore alla caviglia.

La compressione progressiva sembra anche migliore nel ridurre sintomi come dolore e pesantezza alle gambe, almeno nei soggetti con insufficienza venosa. Inoltre, questa calza è tendenzialmente più facile da indossare.
Ricordiamo tuttavia che, proprio per le sue caratteristiche di compressione, la calza a compressione progressiva non appartiene alla categoria delle calze terapeutiche (le vedremo tra poco).

Funzione della calza

In base alla sua funzione, la calza elastica può essere definita preventiva o terapeutica.

Calza elastica preventiva

La calza elastica preventiva è costituita solitamente dalla sola maglia, senza il filo di trama; per questo motivo non può esercitare pressioni tali da poterla definire terapeutica.

Se ne distinguono due tipi diversi, a seconda che lo scopo sia quello di prevenire l’insufficienza venosa oppure la trombosi.

Prevenzione dell’insufficienza venosa

Questa calza elastica esercita una pressione non terapeutica per alleviare sintomi come dolore o pesantezza alle gambe, soprattutto in individui che per abitudini lavorative passano molto tempo in piedi o seduti.

La calza elastica preventiva si misura di solito in denari, una grandezza che non ha nulla a che fare con la compressione esercitata ma che indica solamente il peso del filato della calza.
Una calza da 70 denari, ad esempio, può alleviare alcuni sintomi grazie al suo effetto compressivo, ma la pressione effettiva che esercita sarà diversa a seconda del materiale di cui è fatta (paradossalmente potrebbe comprimere di più rispetto ad una calza da 140 denari fatta di un materiale più leggero).

In generale, comunque, la pressione esercitata da una calza elastica di questo tipo non supera i 18 mmHg.

Prevenzione della trombosi

La trombosi venosa è una complicazione grave che avviene quando il sangue all’interno di una vena coagula improvvisamente. Il pericolo principale, in questi casi, è che si stacchi un frammento solido che, seguendo il flusso del sangue, provochi una embolia ai polmoni.
Per questo è importante prevenire la trombosi in situazioni a rischio come interventi chirurgici, gravidanza, fratture delle ossa oppure immobilizzazione prolungata a letto.

La calza elastica preventiva per la trombosi è tipicamente di colore bianco e si fa indossare in ospedale subito dopo un’operazione o dopo il parto.
Mentre siamo sdraiati a letto, essa esercita una blanda compressione che aiuta a far scorrere meglio il sangue, evitando che si coaguli.

La calza elastica preventiva per la trombosi funziona quando stiamo distesi

Bisogna tuttavia ricordare che questa azione terapeutica scompare completamente appena ci alziamo in piedi, proprio perché la pressione del sangue alla caviglia aumenta di molto. Di conseguenza, questa calza non serve a nulla se la indossiamo in posizione eretta, magari mentre camminiamo per il corridoio come spesso si vede fare nei reparti ospedalieri.

Calza elastica terapeutica

La calza elastica terapeutica possiede determinati standard qualitativi che la certificano come dispositivo medico terapeutico e non preventivo.
Le sue peculiarità sono la pressione ben definita che esercita nei vari punti della gamba e la precisa decrescita di questa stessa pressione dalla caviglia alla coscia.

La calza elastica migliora il risultato della scleroterapia dei capillari

Le caratteristiche che definiscono la calza elastica terapeutica fanno riferimento alle normative tedesca (RAL-GZ 387), francese (NFG 30-102B) e più recentemente europea.
Inoltre, i valori in mmHg che troviamo nella confezione della calza si riferiscono alla pressione esercitata alla caviglia, in particolare nel punto al di sopra dei malleoli.
Sulla base di questo valore, si distinguono calze di prima, seconda o terza classe, che vanno prescritte a seconda della gravità della patologia da trattare.

Prima classe

Secondo la normativa tedesca, questa calza elastica esercita pressioni alla caviglia comprese tra 18 e 21 mmHg.
Si utilizza in caso di pesantezza o dolore alle gambe, oppure per ottimizzare il risultato in corso di scleroterapia dei capillari o per il trattamento delle vene visibili sulle gambe.

Seconda classe

Questa calza è ideale per le persone che soffrono di insufficienza venosa; la pressione alla caviglia è compresa tra 22 e 32 mmHg.
Si utilizza in presenza di vene varicose, come terapia dopo una trombosi oppure dopo un intervento chirurgico di asportazione delle varici.

Terza classe

Si tratta di una calza particolare che esercita pressioni molto alte (34-46 mmHg) da prescrivere solo in caso di gravi linfedemi alla gamba, dopo una adeguata terapia decongestiva.

Come scegliere il prodotto più adatto

La calza elastica andrebbe sempre prescritta da un medico specialista in ambito flebologico. Tuttavia, è comunque utile avere alcune nozioni basilari nel caso non disponessimo di una prescrizione, se non altro per evitare di acquistare un prodotto che poi si riveli inutile.
I fattori da considerare riguardano in particolare il tipo di filato e la forma della calza.

Filato

La scelta del filato determina le diverse caratteristiche del filo di trama, e quindi le differenti proprietà compressive della calza.
Parliamo in questo caso di calza elastica terapeutica, proprio per la presenza del filo di trama.

Microfibra

La microfibra è un materiale molto sottile, addirittura più della seta.
PRO: Molto leggera e traspirabile, ben tollerata, è adatta a persone giovani che non vogliono rinunciare all’eleganza e al comfort pur indossando un presidio terapeutico.
CONTRO: Si tratta di un tessuto fragile e dal costo elevato, che mal si adatta alle variazioni di circonferenza degli arti; va evitata quindi nei soggetti obesi.

Materiale sintetico

Il materiale sintetico può essere di diverso tipo e i vari materiali si possono utilizzare anche in combinazione tra loro. I più usati sono il Nylon (derivato dalle poliammidi), e le fibre di poliuretano come l’Elastam.
PRO: Questa calza è più spessa della microfibra, ma è comunque sufficientemente leggera, elegante e vestibile. Inoltre, resiste maggiormente all’usura e si asciuga in fretta dopo il lavaggio. In assoluto è la calza più versatile e che personalmente prescrivo più spesso.
CONTRO: I materiali sintetici possono essere allergizzanti.

Cotone

Si tratta di un altro materiale molto usato; la calza in cotone può avere spessori variabili.
PRO: Molto traspirante, è l’ideale per le persone che soffrono di dermatiti o allergie cutanee.
CONTRO: Questa calza risulta un po’ meno estetica, a seconda comunque dello spessore del cotone. Ricordiamoci inoltre che può essere un po’ più difficile da indossare.

Caucciù

Il caucciù viene estratto dal lattice di alcune piante che producono gomme naturali; lo si trova per lo più in Asia e in Amazzonia.
PRO: Si tratta di un materiale molto elastico, che attutisce bene il gonfiore degli arti e mantiene un’ottima compressione durante la giornata, nonostante la grande estensibilità.
Ha anche una elevata “stiffness”, quindi è la calza ideale per ottenere compressioni importanti e pressioni più alte durante l’esercizio muscolare.
Per questo la calza in caucciù è ottima per mantenere la gamba sgonfia dopo un ciclo di bendaggi.
CONTRO: Essendo molto rigida, non è una calza versatile e va prescritta solo in casi specifici.

Forma del tutore

La forma del tutore dipende molto dalle abitudini personali. L’importante, tuttavia, è che la calza comprima almeno a livello del polpaccio, dove agisce la pompa muscolare.

Gambaletto

Il gambaletto è un tipo di calza molto diffusa; è comodo ed è del tutto simile ad un calzino lungo che arriva fino al ginocchio.
PRO: Ovviamente è l’ideale per l’uomo, ed è la tipologia di calza elastica più facile da indossare in assoluto.
Va molto bene come calza preventiva per chi soffre di pesantezza alle gambe, ma per lo stesso problema può tranquillamente essere usata una prima classe, se vogliamo avere un effetto un po’ più forte.

Il gambaletto è una tipologia di calza elastica ideale per l'uomo
CONTRO: Si limita a comprimere sul polpaccio quindi svolge la sua funzione fondamentale, ma può non essere sufficiente se sono presenti vene varicose sulla coscia o se c’è un reflusso lungo la vena safena.
In questi casi, una compressione completa previene l’insorgenza di trombosi e riduce il reflusso di sangue.
Ovviamente non è l’ideale per la donna, che preferisce indubbiamente prodotti più “femminili”.

Autoreggente

Si tratta di una calza adatta ovviamente alla donna.
PRO: Generalmente è più comoda rispetto al collant perché non stringe sulla pancia, ed è ideale da usare in corso di scleroterapia dei capillari.

La calza elastica autoreggente è ideale per la donna
CONTRO: Potrebbe scivolare verso il basso se la coscia è troppo sottile; si può evitare questo inconveniente bagnando la parte in silicone che assicura la tenuta.
Ricoriamoci che la stessa parte reggente in silicone può causare allergie.

Monocollant

Si tratta di una calza che comprime interamente un solo arto, e di solito ha una cinghia che permette di avvolgerla in vita.
PRO: Ideale per chi ha problemi di vene varicose su un solo arto, oppure da usare dopo un intervento alla safena.
Può essere usata all’occorrenza anche per l’altro arto, semplicemente rovesciandola.

Il monocollant è la calza elastica ideale dopo un intervento
CONTRO: Sicuramente meno apprezzata dalle donne, che preferiscono una calza che copra entrambi gli arti.

Collant

PRO: Ideale per la donna e sicuramente molto estetica e versatile, quelle in microfibra o materiale sintetico sembrano a tutti gli effetti delle calze normali.
Effettuano una compressione totale e ottimale su entrambi gli arti.
CONTRO: Possono risultare fastidiose soprattutto in chi è sovrappeso, perché stringono fino alla pancia; molto dipende comunque dalle preferenze personali.
Ovviamente sono più difficili da portare per l’uomo.

Punta chiusa o punta aperta?

Un ultimo aspetto su cui soffermarsi riguarda il tipo di copertura sul piede.

La punta chiusa è sicuramente più elegante, e per tale motivo si adatta meglio al gambaletto e al collant. Lo svantaggio della punta chiusa è che risulta un po’ più difficile da indossare.

La punta aperta è più facile da indossare e si adatta bene soprattutto al monocollant. Tuttavia, può dare fastidio perché lascia scoperta la parte anteriore del piede, soprattutto per un motivo legato alla sudorazione.

La calza elastica può essere a punta aperta

Come usare la calza elastica

Il corretto uso della calza elastica consente di evitare molti dei problemi comunemente riferiti dai pazienti che la indossando.
Questo aumenta l’efficacia del trattamento compressivo e il comfort per il paziente stesso.

Come abbiamo detto, la calza elastica andrebbe sempre prescritta da un medico competente in materia. La prescrizione dovrebbe comprendere la presa  misure e la scelta di materiale e tipologia del prodotto.
Ciò purtroppo non avviene di frequente, con il risultato che il paziente si reca nella sanitaria di riferimento senza una precisa indicazione; a volte è la sanitaria stessa a non suggerire il prodotto più idoneo.

Le misure andrebbero prese da distesi e non in piedi, preferibilmente al mattino, per essere più veritiere possibile (evitando quindi la presenza di contrazione muscolare o gonfiore).
I punti da misurare sono le circonferenze alla caviglia sopra i malleoli, al polpaccio e alla coscia, e le lunghezze di gamba e coscia.
Se le misure non rientrano tra quelle standard, come in caso di statura particolarmente alta, si procede con la prescrizione di una calza su misura.

Una volta acquistata, la calza elastica va indossata al mattino e tolta la sera, evitando di usarla di notte salvo particolari indicazioni (ad esempio dopo un intervento alle vene).
Essendo la calza elastica percepita come “stretta”, indossarla può risultare difficile soprattutto se ha una compressione elevata.

Come risolvere questo problema?
– se la punta è aperta, nel kit di solito è presente una ciabattina di tessuto sottile che, indossata prima della calza, ne agevola lo scorrimento per poi essere rimossa;
– se la punta è chiusa si indossa la calza rovesciandola fino al tallone, si fa passare prima il piede fino al tallone stesso, quindi si tira gradualmente verso l’alto il versante interno della calza, più stretto, intervallandolo con trazioni del versante esterno, più morbido;
– se si è in difficoltà ci si può aiutare con dei guanti da cucina; non bisogna tirare troppo per evitare di danneggiare il tessuto, soprattutto se la calza è fatta di microfibra.

Dopo aver indossato la calza per la prima volta, si controlla la correttezza delle misure provando a pinzare la calza con le dita a livello del tendine d’Achille (a questo livello non si dovrebbe riuscire a sollevare il tessuto), e a livello del polpaccio appena sotto il ginocchio (si dovrebbe riuscire minimamante a sollevarla).

Quando non usarla

In generale, in presenza di una gamba gonfia la calza elastica non ha alcuna utilità nel risolvere il problema, e se troppo stretta può addirittura fare dei danni creando un “effetto laccio”.
Questo avviene perché, come abbiamo visto, per sgonfiare una gamba con problemi venosi o linfatici bisogna applicare dei bendaggi più rigidi che creino una differenza di pressione tra il riposo e l‘esercizio.
Quando la gamba sarà sgonfia, una calza elastica correttamente prescritta potrà mantenere il risultato.

Ci sono delle eccezioni a questa regola, come la presenza di lieve edema che si osserva alla sera nelle persone anziane oppure ulcere venose poco secernenti con gamba sgonfia.
In assenza di gonfiore e infiammazione possiamo applicare una calza elastica, purché abbia caratteristiche di dosaggio e “stiffness” compatibili con il problema che vogliamo trattare.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5846867/pdf/10.1177_0268355516689631.pdf

https://www.magonlinelibrary.com/doi/pdfplus/10.12968/jowc.2019.28.Sup6a.S1

 

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I crampi notturni alle gambe sono una patologia poco conosciuta

Crampi notturni alle gambe: un disturbo diffuso e poco conosciuto

I crampi notturni alle gambe sono un disturbo comune e piuttosto fastidioso che colpisce la popolazione adulta e anziana. Il problema in realtà può manifestarsi anche nei giovani, ma avviene più frequentemente man mano che l’età avanza.

La presenza di crampi notturni alle gambe si associa ad un peggioramento della qualità del sonno e quindi a una scadente qualità di vita.
Inoltre, fino al 20% delle persone affette riferisce che il problema insorge anche di giorno, di solito verso sera.

Le cause di questo problema sono poco chiare e spesso anche il trattamento non è efficace.
In questo articolo esaminerò le evidenze scientifiche di questa patologia e i possibili rimedi per stare meglio.

Cosa sono i crampi notturni alle gambe

Si tratta fondamentalmente di contrazioni spontanee dei muscoli degli arti inferiori, localizzate per lo più al polpaccio ma anche al piede o alla coscia, che avvengono tipicamente di notte.

I soggetti affetti li descrivono come una stretta, una fitta, una crisi dolorosa; possono essere isometrici, cioè non cambiare la lunghezza del muscolo, oppure accompagnarsi ad una contrazione muscolare, come ad esempio la flessione del piede.

I crampi notturni alle gambe colpiscono la popolazione adulta e anziana

I crampi notturni alle gambe sono dolorosi, durano circa una decina di minuti e possono essere seguiti da periodi anche di alcune ore in cui si verificano ripetutamente o comunque si continua ad avvertire dolore.
Per questi motivi, i crampi notturni alle gambe peggiorano la qualità del sonno o addirittura determinano un’insonnia secondaria.

Perché si sviluppano i crampi notturni alle gambe

Premesso che si tratta di una patologia poco conosciuta, sebbene estremamente diffusa, i crampi notturni alle gambe sembrano originare da una anomalia dei neuroni motori periferici, cioè le cellule nervose che stimolano la contrazione di muscoli.

Alcuni studi basati sull’elettromiografia, infatti, hanno mostrato che in concomitanza con i crampi si verificano delle scariche nervose involontarie dirette ai muscoli, con frequenza tendenzialmente elevata e con esordio brusco.

Inoltre, sembra che i soggetti affetti siano più suscettibili agli stimoli elettrici rispetto alle persone sane. Questo farebbe pensare ad una possibile predisposizione allo sviluppo dei crampi, in persone che hanno una soglia di stimolazione muscolare più bassa del normale.

Altri studi hanno ipotizzato che la vita sedentaria dei giorni nostri abbia ridotto la capacità di allungamento dei tendini e dei muscoli, causando più facilmente l’insorgenza dei crampi.
Un’altra ipotesi è che durante il sonno, essendo il piede in flessione persistente ed i muscoli del polpaccio massimamente accorciati, ci sia una maggiore propensione alla contrazione muscolare incontrollata.

Per quanto riguarda la maggiore frequenza in età avanzata, una spiegazione si baserebbe sulle modificazioni che i neuroni subiscono nelle persone anziane.
Infatti, con l’invecchiamento il numero di cellule nervose diminuisce, e questo avviene maggiormente negli arti inferiori rispetto agli arti superiori. I neuroni che sopravvivono, quindi, funzionerebbero in modo anomalo.
Inoltre, negli anziani le terminazioni nervose sono più eccitabili a causa dell’accorciamento dei tendini, dell’immobilità prolungata e della scarsa circolazione del sangue, dovuta a diabete o problemi vascolari.

Chi è colpito da crampi notturni alle gambe

Oltre a presentarsi soprattutto in età avanzata, in crampi notturni alle gambe sono leggermente più frequenti nelle donne.

I crampi notturni alle gambe sono più frequenti nelle donne

Un recente studio, che ha indagato le caratteristiche epidemiologiche dei crampi, ci dice che essi si presentano di più in persone che hanno condizioni di salute scadenti, sonno disturbato, malattie cardiovascolari, artrite, malattie respiratorie e depressione.
L’associazione con l’artrite è stata ben documentata, ma non è chiaro se sia dovuta allo stato infiammatorio causato dall’artrite stessa oppure al danno ai nervi periferici secondario all’infiammazione.

Anche alcune alterazioni degli esami del sangue si associano ai crampi notturni alle gambe, come la diminuzione dei globuli rossi e l’aumento dell’emoglobina glicata (un parametro di gravità del diabete).

Cause dei crampi notturni alle gambe

I crampi notturni alle gambe si raggruppano in tre tipologie.
Possono manifestarsi senza cause apparenti (primitivi o idiopatici), possono essere causati da specifici fattori (secondari) o essere presenti in gravidanza.
In aggiunta, ricordiamo che gli adolescenti possono avvertire crampi notturni legati alla crescita, quindi del tutto fisiologici.

Vediamo le tre tipologie nel dettaglio.

Idiopatici

Sono i più frequenti, non hanno una causa apparente e si riscontrano nell’età adulta e anziana soprattutto se c’è uno stato di salute precario.

Secondari

Sono i crampi notturni alle gambe riconducibili ad alcuni specifici fattori. Vediamoli nello specifico.

Farmaci

Moltissimi farmaci causano crampi muscolari, ma solo alcuni sono associati ai crampi notturni alle gambe. Ecco i principali.

In alcuni casi i crampi notturni alle gambe sono causati da farmaci

Farmaci usati per contrastare l’osteoporosi
Raloxifene, un modulatore del recettore degli androgeni che si usa nelle donne in menopausa, per contrastare gli effetti della carenza ormonale
Teriparatide, un farmaco anti-osteoporosi che ha gli stessi effetti dell’ormone paratiroideo
Estrogeni coniugati

Farmaci usati per problemi del sistema nervoso
Clonazepam, un farmaco ansiolitico e ipnotico
Citalopram, un antidepressivo
Zolpidem, un sonnifero
Gabapentin, una sostanza usata per i disturbi nervosi periferici e per l’epilessia

Altri farmaci responsabili di crampi notturni alle gambe sono le infusioni endovenose di saccarosio di ferro e alcuni farmaci antinfiammatori come il Naproxene e il Celecoxib.

Alcuni diuretici come l’Idroclorotiazide sono stati a lungo ritenuti responsabili di crampi notturni alle gambe, perché modificando la concentrazione di elettroliti si pensava che alterassero la contrazione muscolare.
In realtà non ci sono studi che provino l’evidenza di questa correlazione.

Malattie arteriose

L’aterosclerosi periferica è una malattia in cui si formano placche che ostruiscono le arterie delle gambe, riducendo il flusso del sangue.
Si è osservato che, oltre ai sintomi tipici di questa malattia, fino al 75% delle persone affette manifesta anche crampi notturni alle gambe.
Anche i soggetti affetti da aterosclerosi delle coronarie presentano spesso questi disturbi.

Insufficienza venosa

L’insufficienza venosa è dovuta allo sfiancamento delle vene delle gambe, che diventano incapaci di drenare il sangue e si dilatano progressivamente formando le cosiddette vene varicose.

Tra i sintomi che la caratterizzano, anche i crampi notturni alle gambe possono presentarsi in questa malattia.

La causa sarebbe riconducibile al ristagno di sangue e alla conseguente scarsa ossigenazione dei tessuti, oltre che all’accumulo di metaboliti. Sembrerebbe anche che, se presenti, i crampi notturni alle gambe persistano dopo l’eventuale trattamento del problema venoso.

Anche la stazione eretta prolungata, uno dei fattori che favoriscono l’insufficienza venosa, sembra essere responsabile dell’insorgenza dei crampi.

Cirrosi epatica

Si tratta di una grave malattia nella quale il fegato viene progressivamente distrutto da un processo di infiammazione, a sua colta conseguente a vari fattori (infezioni, abuso di alcol, ecc.)

Gli studi scientifici mostrano che fino al 60% dei pazienti con cirrosi epatica manifesta crampi notturni alle gambe, soprattutto se sono anziani e con malattia in fase avanzata.

Patologie del sistema nervoso

Si associano a crampi notturni alle gambe il morbo di Parkinson, la sclerosi multipla, la neuropatia periferica e la stenosi del canale lombare o la compressione delle radici nervose a livello della colonna vertebrale.

Anche la chemioterapia, poiché distrugge le cellule nervose oltre a quelle tumorali, può causare questi disturbi.

Consumo di alcolici

I crampi notturni alle gambe sono uno dei sintomi tipici della miopatia alcolica. Questa malattia si caratterizza per il danno alle cellule muscolari causato dall’abuso di alcol, che distrugge le fibre muscolari di tipo 2.

Questo avverrebbe soprattutto negli anziani, che essendo sedentari sono più facilmente soggetti a perdita di fibre muscolari, diventando così più vulnerabili ai crampi.

Dialisi

Anche l’emodialisi si associa a crampi notturni alle gambe, mentre la presenza della sola insufficienza renale cronica no.

Alterazioni degli elettroliti

Al contrario di ciò che si pensa comunemente, non ci sono studi che dimostrino un nesso causale tra i crampi notturni alle gambe e la disidratazione o il calo degli elettroliti come sodio e potassio.
Il magnesio merita un discorso a parte, che vedremo a proposito dei crampi in gravidanza.

Nonostante ciò, alcune malattie come il diabete, gli squilibri della tiroide e il morbo di Addison (insufficiente funzionamento delle ghiandole surrenali) si associano a crampi notturni alle gambe.
Poiché queste malattie alterano la quantità di elettroliti, questo farebbe pensare ad un loro ruolo nell’aumentare la predisposizione a questi disturbi.

Certo però, come vedremo più avanti, non è consigliato trattare tutti i casi di crampi con la semplice assunzione di elettroliti, al contrario di ciò che si continua spesso a fare.

Crampi in gravidanza

Anche la gravidanza si associa a crampi notturni alle gambe, ma non è chiaro se la causa primaria dei disturbi sia proprio la gravidanza o piuttosto l’insufficienza venosa che si associa a questa condizione.

I crampi notturni alle gambe sono frequenti in gravidanza

I fattori causali dei crampi in gravidanza sarebbero la carenza di alcuni minerali come il magnesio, il calo del volume dei liquidi nel tessuto extracellulare e la inappropriata posizione delle gambe che spesso le donne in gravidanza assumono da sedute.
Come vedremo, in questo caso ha senso una integrazione con il magnesio.

Malattie che assomigliano ai crampi notturni alle gambe

Alcune patologie vengono confuse con i crampi notturni alle gambe, perché hanno dei sintomi simili. Vediamone alcune.

Sindrome delle gambe senza riposo

Questa malattia si caratterizza per una tipica sensazione di discomfort alle gambe, che costringe la persona affetta a muoverle continuamente fino alla cessazione dei sintomi.

Il problema avviene principalmente alla fine della giornata ma soprattutto di notte, ed il movimento è l’unico fattore in grado di dare sollievo. Quando si riprende il riposo, però, i sintomi si ripresentano puntualmente.

La sindrome delle gambe senza riposo è probabilmente una patologia dell’integrazione sensitivo-motoria che colpisce le terminazioni nervose delle gambe, ed è più facile esserne colpiti se anche i familiari di primo grado ne sono affetti.
Si differenzia dai crampi notturni alle gambe in quanto non ci sono contrazioni muscolari involontarie, ma è il paziente che sente l’esigenza di muoversi per eliminare la sensazione di discomfort.

Tra le cause di questa patologia sembra esserci un difettoso trasporto del ferro all’interno di alcune specifiche aree del cervello, cosa che a sua volta impedirebbe una corretta produzione di mielina, una sostanza fondamentale per il funzionamento delle fibre nervose.
Infatti, la gravità della malattia sembra correlarsi con bassi livelli di ferro, anche se ci sono individui malati che ne hanno livelli normali.

Altri fattori causali sembrano essere un aumentato metabolismo della dopamina, un importante neurotrasmettitore cerebrale, e alterazioni dello sviluppo embrionale dei neuroni.

Anche nella sindrome delle gambe senza riposo esistono forme di malattia primitiva, cioè senza cause apparenti, e forme secondarie, ad esempio in caso di gravidanza, insufficienza renale, o assunzione di alcuni farmaci.

Per quanto riguarda la terapia, la sindrome delle gambe senza riposo si caratterizza per una buona risposta ai farmaci dopaminergici, cioè quelli che hanno gli stessi effetti della dopamina.
Tuttavia, se la riposta è positiva circa nel 60-75% dei casi, va ricordato che questi farmaci possono anche peggiorare i sintomi della malattia. Per una cura efficace, quindi, è opportuno rivolgersi ad un Neurologo.
Secondo alcuni studi, sembra che l’esercizio fisico aerobico possa comunque migliorare i sintomi.

Disturbo da movimento periodico degli arti

Si tratta di una patologia rara che si manifesta tipicamente nel sonno e si caratterizza per la comparsa di movimenti involontari degli arti, che avvengono circa 15 volte ogni ora.
La diagnosi viene fatta con la polisonnografia, cioè un esame che indaga le caratteristiche del sonno, che nei pazienti affetti è notevolmente precario .

Il disturbo da movimento periodico degli arti si associa molto frequentemente alla sindrome delle gambe senza riposo (fino all’80% dei casi secondo alcuni studi).
A differenza dei crampi notturni alle gambe, i movimenti non sono dolorosi, hanno un andamento ritmico e ripetitivo, durano alcuni secondi e si ripetono a intervalli di un minuto al massimo.
Tipicamente, si osserva una lenta dorsi-flessione del piede, del ginocchio e dell’anca.

Neuropatia periferica

Questa malattia può causare crampi notturni alle gambe di tipo secondario, ma si differenzia dal disturbo di cui parliamo.
Con il termine neuropatia, infatti, si intende un cattivo funzionamento dei nervi periferici, che si caratterizza per la presenza di intorpidimento, formicolio e dolori simili ad una scossa elettrica nei territori cutanei interessati.

Tra le cause di neuropatia periferica ci sono la compressione dei nervi, l’abuso di alcol e il diabete.

Claudicatio intermittens

Si tratta di un dolore crampiforme che compare durante la deambulazione, dopo un intervallo di marcia ben preciso, che regredisce con il riposo.
Questa patologia è dovuta alla presenza di ostruzioni nelle arterie delle gambe causate dall’aterosclerosi, e si manifesta quando l’apporto di sangue non è sufficiente a far lavorare il muscolo mentre camminiamo.

Si tratta di un disturbo diverso dai crampi notturni alle gambe, ma i pazienti affetti da claudicatio intermittens possono manifestare anche questo problema.

Mialgie

Con questo termine si fa riferimento al dolore di origine muscolare.
Sono dolori che coinvolgono qualsiasi distretto muscolare, vengono avvertiti come profondi e intensi e si associano spesso a debolezza e scarsa tolleranza all’esercizio fisico.
Queste caratteristiche differenziano chiaramente le mialgie dai crampi notturni alle gambe.

Tra le cause di mialgia troviamo l’assunzione statine, cioè farmaci che abbassano il colesterolo plasmatico, oppure alcune patologie infiammatorie del muscolo come le miositi.

Mioclonie

Si chiamano anche spasmi ipnici e sono delle contrazioni involontarie dei muscoli; avvengono all’inizio dell’addormentamento e possono provocare un brusco risveglio.
Sono presenti anche in soggetti sani e, a differenza dei crampi notturni alle gambe, non sono dolorose.

Rimedi per i crampi notturni alle gambe

La terapia dei crampi notturni alle gambe non ha ancora a disposizione soluzioni che funzionino in tutti i casi. Ci sono però dei rimedi fisici e farmacologici che possono migliorare la situazione, a seconda dei casi specifici.

Rimedi fisici

Si tratta di esercizi muscolari preventivi oppure del trattamento del crampo in fase acuta.

Esercizi preventivi

In base agli studi presenti in letteratura, sembra che possa essere utile effettuare esercizi muscolari per prevenire la comparsa di crampi.

Un recente studio ha indagato l’effetto dello stretching ai polpacci e ai bicipiti femorali effettuato prima di dormire in soggetti adulti di oltre 55 anni, che lamentavano crampi notturni alle gambe e non assumevano terapia specifica; si è osservata una riduzione nella frequenza dei crampi.

I crampi notturni alle gambe possono essere prevenuti con lo stretching

Anche un blando esercizio fisico, eseguito per qualche minuto prima di dormire, può essere utile per prevenire il disturbo o quantomeno ridurlo. A questo proposito si può effettuare una corsa leggera al tapis roulant oppure una breve sessione di cyclette.

Un blando esercizio fisico a iuta a migliorare i crampi notturni alle gambe

Per chi fa esercizio fisico durante la giornata e soffre di affaticamento muscolare, invece, è consigliato effettuare uno stretching prima e dopo l’allenamento e idratarsi adeguatamente.
Anche i massaggi muscolari profondi possono essere d’aiuto nella prevenzione dei disturbi.

Trattamento del crampo acuto

In presenza di un crampo notturno acuto bisogna allungare passivamente il muscolo, ad esempio in caso di crampo al polpaccio va fatta una dorsiflessione della caviglia.

Farmaci

Non ci sono allo stato attuale farmaci che possano essere prescritti di routine per trattare i crampi notturni alle gambe. Il disturbo va indagato e vanno ricercate possibili cause; solo allora si potrà impostare una terapia.
Vediamo quali sono i farmaci normalmente impiegati per questi disturbi.

Chinino

Si tratta di un farmaco usato per curare la malaria che ha provata efficacia nella riduzione dei crampi notturni alle gambe.
Infatti, diversi studi scientifici basati sulla somministrazione di questo farmaco hanno mostrato una moderata evidenza nel ridurre l’intensità, il numero totale dei crampi, il numero di giorni in cui si avvertivano crampi e, in misura minore, la loro frequenza.
Il dosaggio è stato di 300 mg al giorno.

Tuttavia, il chinino non è più raccomandato per il trattamento dei crampi, in quanto si sono osservati pesanti effetti collaterali legati alla sua assunzione.
In realtà, se la cura è inferiore a 60 giorni, gli effetti collaterali sembrerebbero essere per lo più moderati, in particolare di tipo gastrointestinale oppure mal di testa e fischi alle orecchie.

In circa 2 casi su mille, però, si può manifestare un grave calo delle piastrine dovuto a reazione auto-immunitaria, che avviene in genere entro le prime tre settimane di trattamento.
Altre reazioni gravi sono rappresentate da allergie, interazioni con altri farmaci, cecità e disfunzione cardiaca.

Nel caso di sintomi particolarmente gravi in cui il chinino si debba comunque usare nonostante le raccomandazioni, i pazienti vanno informati degli effetti collaterali e bisogna valutare bene il rapporto rischio-beneficio.

Magnesio

Anche se viene comunemente usato per trattare i crampi notturni alle gambe, non ci sono evidenze scientifiche che provino la reale efficacia del magnesio nei confronti di questo disturbo.

Un recente studio, infatti, ha confrontato la somministrazione di magnesio orale con placebo in soggetti adulti affetti da crampi notturni alle gambe, senza riscontrare differenze significative.
Questo risultato ha fatto pensare che il magnesio abbia un possibile effetto placebo sui crampi.

Un’eccezione è rappresentata dalle donne in gravidanza, nelle quali il magnesio sembra avere maggiore evidenza di efficacia, come anche la supplementazione di sodio e complesso multivitaminico.
Bisogna comunque fare attenzione a non assumere troppo sodio, perché può favorire un aumento della pressione del sangue.

Ioni e vitamine

Assumere una supplementazione di calcio, potassio o vitamina E, come spesso si fa, non ha mostrato efficacia del migliorare i crampi notturni alle gambe.
Anche il loro trattamento con farmaci antinfiammatori o antiepilettici non sembra avere utilità, sulla base dei dati scientifici disponibili.

In merito ad una possibile supplementazione vitaminica, dobbiamo menzionare il complesso vitaminico di tipo B, che assunto per 3 volte al giorno ha mostrato efficacia nel trattamento dei crampi in soggetti che presentavano una carenza di queste vitamine.

Altri farmaci

Diltiazem
Si tratta di un farmaco usato per abbassare la pressione del sangue. Si è mostrato efficace nel ridurre la frequenza dei crampi ma non la loro intensità, con un dosaggio di 30 mg al giorno.
Lo studio che ne ha indagato gli effetti è stato piuttosto limitato, quindi questi dati non vanno presi per certi.

Verapamile
Anche quesrto farmaco abbassa la pressione del sangue. Può essere utilizzato per i crampi notturni assumendolo prima di andare a letto, al dosaggio di 120 mg.

Naftidrofurile ossalato (nome commerciale Praxilene)
Può essere efficace nel trattamento dei crampi, al dosaggio di 200 mg fino a 3 volte al giorno.
Va assunto ai pasti insieme ad un bicchiere d’acqua, ed è controindicato in caso di calcoli renali in quanto può favorirne la formazione.

Conclusioni

Purtroppo i crampi notturni alle gambe sono ancora poco conosciuti e i rimedi sono limitati. Questo suona strano, perchè il disturbo è molto diffuso e tutto sommato non si tratta di una patologia che comporta gravi problemi di salute.
Di certo però questi disturbi sono molto fastidiosi, e c’è bisogno di implementare le ricerche scientifiche per poter trovare rimedi efficaci.
Nel frattempo si possono utilizzare i rimedi fisici preventivi, e in caso di bisogno rivolgersi ad uno specialista per valutare l’opportunità di una terapia farmacologica.

Fonti

https://www.aafp.org/afp/2012/0815/p350.pdf

https://www.mp.pl/paim/en/node/4148/pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5818780/

https://smw.ch/article/doi/smw.2019.20048

https://www.aafp.org/afp/2017/1001/od3.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6037509/pdf/0160296.pdf

La trombosi in aereo è una complicanza non infrequente dei voli a lungo raggio

Trombosi in aereo: chi è a rischio e come si può prevenire

La comparsa di una trombosi in aereo è una evenienza non infrequente e probabilmente sottostimata, che può verificarsi quando si effettuano viaggi aerei a lungo raggio.

La causa prevalente della trombosi in aereo è la presenza di fattori di rischio individuali, che aumentano la possibilità di trombosi e di conseguenti embolie.
Bisogna considerare, però, che durante il viaggio si creano particolari condizioni fisiche e climatiche all’interno dell’aereo, le quali aumentano ulteriormente il rischio e possono tuttavia essere contrastate.

In genere, capita spesso di avvertire gonfiore e pesantezza alle gambe durante il volo; questi sintomi regrediscono di solito abbastanza rapidamente, dopo l’atterraggio o al massimo nel giro di qualche giorno.
Alle volte, però, un gonfiore o un dolore acuto possono comparire a distanza di giorni dal volo; in questo caso è bene insospettirsi e recarsi quanto prima ad effettuare un ecodoppler, per escludere la presenza di una trombosi.

Conoscere il problema della trombosi in aereo è molto importante, così come è importante sapere se si è a rischio di svilupparla.
In questo modo si potranno adottare delle misure preventive o effettuare una profilassi con farmaci, quando necessario.

In questo articolo vedremo quando un volo si definisce a lungo raggio, in che modo aumenta il rischio di trombosi e cosa fare per evitarla.

Che cos’è la trombosi in aereo

La trombosi in aereo è un evento caratterizzato dalla coagulazione improvvisa del sangue all’interno di una vena, tipicamente degli arti inferiori, che si verifica in relazione ad un volo di lunga durata.
Le vene interessate possono essere quelle superficiali, localizzate nel tessuto sottocutaneo, oppure quelle profonde, che si trovano nel contesto delle masse muscolari vicino alle rispettive arterie.

Se la trombosi è superficiale i sintomi sono generalmente il dolore e l’arrossamento lungo il decorso della vena, ed il rischio di complicazioni gravi è basso.
Quando sono interessate le vene profonde, al dolore si accompagna spesso un gonfiore improvviso; in questi casi la sede più colpita è il polpaccio ed il rischio di embolie è elevato.

ecodoppler venoso

I meccanismi attraverso i quali si sviluppa una trombosi in aereo si verificano tipicamente durante il volo, mentre la trombosi vera e propria si manifesta di solito a distanza di qualche giorno dall’atterraggio, generalmente entro le prime due settimane.
Il rischio di trombosi rimane comunque presente per circa quattro settimane.

Per quanto riguarda le dimensioni del problema, gli studi più vasti che sono stati effettuati (LONFIT) mostrano che nei i soggetti sani il rischio è relativamente basso (circa l’1,6% dei casi), mentre nella popolazione con fattori di rischio la percentuale aumenta nettamente, arrivando al 5%.

Questi dati rappresentano però la punta di un iceberg, in quanto la maggior parte delle ricerche effettuate non comprende i casi asintomatici e parte di quelli che si manifestano a distanza di tempo dal viaggio aereo.
Questo spiega il perché la trombosi in aereo sia un problema facilmente sottostimato.

Conseguenze della trombosi in aereo

Il pericolo principale legato ad una trombosi in aereo è l’embolia polmonare.
Si tratta di una complicanza più spesso conseguente alle trombosi venose profonde, quando frammenti di sangue coagulato si staccano dalla sede di trombosi e, trasportati dal flusso del sangue, raggiungono i polmoni dove bloccano la circolazione.

Un’embolia polmonare si manifesta di solito con dolore al torace e difficoltà a respirare, ma può assumere quadri clinici gravi che mettono a rischio anche la vita, e richiedono quindi un trattamento immediato.

La seconda conseguenza della trombosi in aereo è rappresentata dalla comparsa di un gonfiore ingravescente alla gamba, che inizia nella fase acuta e persiste poi nel tempo.
Questo gonfiore è dovuto inizialmente al blocco del flusso sanguigno conseguente alla trombosi, e successivamente agli esiti che la trombosi lascia sulla vena colpita.

Infatti, dopo che la trombosi si è risolta, le valvole venose possono rimanere danneggiate e non riescono più a svolgere la loro funzione di diga, tramite la quale sono in grado di bloccare la caduta del sangue verso il basso.
Di conseguenza, il sangue stesso refluisce verso le caviglie e lì tende a ristagnare, facendo peggiorare il gonfiore e causando addirittura la comparsa di ulcere.
Si tratta della cosiddetta “sindrome post trombotica”, che va trattata con l’applicazione di bendaggi decongestivi e successivamente con una calza elastica adeguata.

Cause della trombosi in aereo

Le cause della trombosi in aereo si dividono in fattori ambientali, che si sviluppano all’interno del velivolo, e in fattori intrinseci del soggetto. Questi ultimi, come abbiamo detto, sono quelli che hanno un peso maggiore.

I meccanismi attraverso i quali le varie cause portano al verificarsi di una trombosi sono principalmente tre: il ristagno di sangue, il danneggiamento della parete venosa e lo stato di aumentata coagulabilità del sangue.

Di seguito vedremo i vari fattori causali e i meccanismi attraverso i quali aumentano il rischio di trombosi in aereo.

Fattori ambientali

Si tratta di alcune condizioni climatiche e fisiche che si vengono a creare all’interno del velivolo durante il volo.

Ipossia

L’ipossia è la diminuzione della quantità di ossigeno nell’aria.
All’interno dell’aereo, per ragioni di risparmio sul carburante, viene mantenuta una pressione atmosferica di ossigeno simile a quella che si trova in alta montagna, precisamente ad una altitudine compresa tra 1800 e 2400 metri.

Questa improvvisa minore concentrazione di ossigeno che si viene a creare al momento della chiusura degli sportelli, chiamata ipossia ipobarica acuta, può favorire la trombosi in aereo perché attiva direttamente la coagulazione del sangue.
La stessa coagulazione, peraltro, tende a normalizzarsi dopo una prolungata acclimatazione.

L’aria nella cabina, avendo una pressione più bassa, esercita anche una minore pressione esterna sulle gambe, rendendo più difficile il ritorno del sangue venoso al cuore.
Le vene, infatti, pompando il sangue contro gravità, si giovano del supporto della pressione atmosferica esterna, che in aereo viene a mancare.

Disidratazione

Durante il volo l’umidità dell’aria tende a diminuire rapidamente all’interno dell’aereo, raggiungendo un valore compreso tra il 3% e il 15%. Questo provoca una forte disidratazione delle mucose del corpo e in generale un calo dei liquidi dell’organismo.

La disidratazione è responsabile di una progressiva concentrazione del sangue, dovuta proprio al calo della sua componente liquida, situazione che favorisce la coagulazione perché aumenta la facilità di contatto tra le piastrine e di conseguenza la loro attivazione.
In questo modo, una trombosi venosa può innescarsi più facilmente.

In aggiunta, l’assunzione spesso frequente di bevande alcoliche, di tè o caffè peggiora ulteriormente la disidratazione, perché queste sostanze sono notoriamente diuretiche e andrebbero quindi evitate.

Posizione durante il volo

Si tratta probabilmente del fattore ambientale più importante.
In condizioni normali, il sangue proveniente dalle gambe viene pompato contro gravità verso il cuore grazie all’azione dei muscoli del polpaccio, che si azionano in sinergia con le valvole venose quando camminiamo.

Mantenere una posizione seduta prolungata durante il volo aereo causa un persistente ristagno di sangue nelle gambe, perché gli angoli tra le articolazioni bloccano il flusso venoso e i muscoli del polpaccio non lavorano.
Inoltre, la pressione esercitata dal bordo del sedile sul lato posteriore delle cosce, incrementata dalla tipica posizione con le gambe accavallate che si assume nelle classi economiche, può provocare un danno diretto alle cellule della parete venosa.

A questo proposito, per molto tempo si è ipotizzata l’esistenza di una “trombosi della classe economica”, proprio in relazione ai posti a sedere particolarmente stretti di questa classe di viaggio, che favorirebbero maggiormente la trombosi rispetto a quelli delle classi più privilegiate.

la trombosi in aereo può essere favorita dalla posizione assunta durante il volo

In realtà, alcuni studi hanno mostrato che c’è una differenza minima in termini di rischio tra i passeggeri della classe economica rispetto a quelli della businness o della prima classe.
Il caso del presidente americano R. Nixon è emblematico, in quanto fu vittima di una trombosi profonda nel 1974 mentre viaggiava dagli Stati Uniti all’Europa e all’Unione Sovietica; trovandosi a bordo dell’aereo presidenziale, possiamo facilmente dedurre che si trovasse in una posizione di viaggio tutt’altro che scomoda.

D’altra parte, altri studi rivelano che i passeggeri seduti vicino al finestrino hanno un rischio due volte maggiore di sviluppare una trombosi rispetto a quelli sul lato corridoio, sempre in relazione alle posizioni assunte durante il viaggio e alla possibilità di camminare frequentemente durante il volo.
Questo vale soprattutto per i soggetti obesi.

Ritenzione idrica

Anche se provoca una progressiva disidratazione corporea, un volo a lungo raggio determina una significativa ritenzione idrica nelle gambe, che possono gonfiarsi o risentire di pesantezza e indolenzimento.
Questo accumulo di liquidi, se importante, potrebbe comprimere le vene muscolari delle gambe e favorire la trombosi.

La causa di questi disturbi è sempre legata al ristagno di sangue, dovuto a sua volta a posizione scorretta e poco movimento muscolare durante il viaggio.

Durata del volo

Sebbene non ci sia un consenso unanime che definisca quando un volo può essere considerato a lungo raggio, ci sono chiare evidenze di correlazione tra voli aerei di durata superiore alle sei ore e sviluppo di trombosi.
L’intervallo considerato riguarda solo il tempo passato in aereo, e non quello di attesa in aeroporto o nelle zone di transito.

Il rischio di trombosi in aereo aumenta se il volo supera le sei ore

Inoltre, i dati scientifici ci dicono che il rischio di trombosi in aereo è di oltre due volte più alto nei voli lunghi rispetto ai voli brevi, e aumenta del 23% circa per ogni due ore aggiuntive di volo.

Fattori relativi al passeggero

Alcune patologie o predisposizioni genetiche aumentano il rischio di trombosi in aereo, e tutti i soggetti con fattori di rischio addizionali si sono mostrati a maggior rischio di sviluppare il problema.

Sesso femminile, gravidanza e terapia ormonale

Il sesso femminile sembra essere un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di embolie polmonari nei voli a lungo raggio, e le donne in gravidanza sono colpite da trombosi in aereo in un volo ogni 100 circa.
Un grosso studio effettuato in Olanda ha mostrato che l’assunzione di contraccettivi orali determina un rischio 40 volte maggiore di sviluppare una trombosi in aereo nei voli a lungo raggio. Le donne che assumono terapia ormonale sostitutiva, invece, hanno un rischio di sviluppare trombosi in uno ogni 400 voli circa.

Altri fattori

I soggetti sovrappeso ma soprattutto i soggetti obesi, cioè con indice di massa corporea (BMI) superiore a 30, sono a maggior rischio di trombosi nei voli a lungo raggio, soprattutto se sono seduti vicino al finestrino.

Il rischio di trombosi in aereo è maggiore nei soggetti obesi spesie se seduti vicino al finestrinoo

Inoltre, essere stati sottoposti ad interventi chirurgici poco prima del volo aumenta di 20 volte circa il rischio di trombosi in aereo.
Anche la presenza di una neoplasia, che già di per sé aumenta il rischio di trombosi, incrementa il rischio, che arriva ad essere di 18 volte più alto rispetto agli individui sani, sempre nei voli a lungo raggio.

Per quanto riguarda la predisposizione genetica, ci sono diverse mutazioni di geni coinvolti nella coagulazione del sangue che determinano un aumento generale del rischio di trombosi.
Per quanto riguarda i voli a lungo raggio, i dati sono controversi; sembra, però, che le persone con mutazione della quinta proteina della coagulazione (il cosiddetto fattore di Leiden) abbiano un rischio 8 volte maggiore di sviluppare una trombosi in aereo rispetto ai soggetti normali.

Altri fattori che favoriscono la trombosi nei voli a lungo raggio sono la statura molto alta, l’età avanzata, i traumi recenti con immobilizzazione prolungata, aver avuto precedenti trombosi venose, la presenza di insufficienza venosa cronica di grado severo, lo scompenso cardiaco, la storia familiare di trombosi, il diabete e l’ipertensione.

Come prevenire la trombosi in aereo

Per prevenire la trombosi in aereo si possono adottare alcune misure preventive per contrastare i cambiamenti ambientali che si verificano all’interno dell’aereo.
In casi particolari, invece, questo non è sufficiente, e bisogna effettuare una profilassi con l’utilizzo di calze elastiche o farmaci.

Misure preventive

Si tratta di comportamenti che possiamo adottare durante il viaggio e che contrastano i fattori causali ambientali di trombosi.

Idratazione

Idratarsi adeguatamente prima e durante il volo aiuta a mantenere la giusta quantità di liquidi nell’organismo e permette di evitare una eccessiva concentrazione del sangue. Bisogna bere acqua o bevande analcoliche evitando gli alcolici, il tè e il caffè, perché stimolano la diuresi e quindi la perdita di liquidi.

Una idratazione adeguata, inoltre, contrasta gli effetti della scarsa umidificazione dell’aria, che oltre a contribuire alla disidratazione secca le mucose favorendo raffreddore e mal di gola.

Il consiglio riportato negli studi che ho esaminato è di bere almeno un bicchiere d’acqua ogni 2 ore di volo; credo però che si possa tranquillamente bere una quantità maggiore di acqua.

Attivazione muscolare

Per prevenire il ristagno eccessivo di sangue nelle gambe e il conseguente rischio di trombosi, è opportuno effettuare durante il volo esercizi di dorsi-flessione della caviglia; in questo modo si attiva la pompa muscolare del polpaccio e si favorisce il movimento del sangue stesso.

Per lo stesso motivo, le linee guida americane dell’ACCP (American College of Chest Physician) raccomandano a chi è a rischio di trombosi di sedersi vicino al corridoio e di effettuare brevi e frequenti passeggiate quando l’aereo è in quota.

Posizione di viaggio

Oltre agli esercizi muscolari, è importante prestare molta attenzione alla posizione assunta durante il viaggio.
Il sedile va reclinato il più possibile, mantenendo un angolo maggiore di 90 gradi, e le gambe vanno stese sotto il sedile di fronte per evitare l’eccessiva flessione tra le articolazioni, che ostacolerebbe il flusso del sangue.

Per lo stesso motivo, bisognerebbe evitare di posizionare bagagli tra le gambe e il sedile di fronte e non si dovrebbero accavallare le gambe, in quanto questa posizione è molto pericolosa per la circolazione venosa.
Consiglio anche di non abusare di sonniferi durante il volo, perchè più facilmente portano ad assumere posizioni scorrette durante il sonno.

Le gambe andrebbero mosse e allungate con semplici esercizi per 2 minuti circa ogni ora, e bisognerebbe camminare per 3 minuti circa ogni ora di volo.

Indumenti

Un altro accorgimento importante, soprattutto per le donne, è quello di non indossare pantaloni troppo attillati o comunque stringenti a livello dell’inguine o della vita, mentre negli uomini vanno evitati i calzini troppo stretti perché potrebbero causare un effetto laccio sotto il ginocchio.

In queste situazioni il flusso di sangue venoso, già ostacolato dalla posizione seduta, risulterebbe infatti ancora di più bloccato.

Profilassi

Consistono nell’utilizzo di dispositivi di tipo medico come le calze elastocompressive, oppure nella somministrazione di terapia farmacologica per rendere il sangue più fluido.

Calza elastica

La calza elastocompressiva esercita una pressione esterna su tutto l’arto inferiore o su una sua parte, a seconda della tipologia, facilitando il flusso di sangue venoso verso il cuore e riducendo il rischio di trombosi.
Per questo motivo, oltre a limitare il gonfiore delle gambe, l’utilizzo di una calza aiuta a prevenire la trombosi in aereo.

 

Si può prevenire una trombosi in aereo utilizzando una calza elastica

Una recente revisione della letteratura ha mostrato che l’utilizzo di una calza a compressione graduata (GECS in inglese) ha una alta evidenza di efficacia nel prevenire la trombosi in aereo, soprattutto nella sua forma asintomatica.
D’altra parte, sembra esserci minore evidenza nella riduzione del gonfiore e moderata evidenza nella prevenzione delle trombosi superficiali.

Secondo recenti linee guida, in caso di volo a lungo raggio le persone a rischio di trombosi in aereo dovrebbero indossare una calza elastocompressiva con pressione alla caviglia da 15 a 30 mmHg, sia sotto forma di gambaletto che di calza estesa alla coscia.
La calza elastica, quindi, deve essere di tipo terapeutico, cioè deve avere determinati requisiti strutturali e una particolare certificazione che garantisca le sue proprietà di compressione.

La calza non va acquistata di propria iniziativa ma va prescritta dal medico specialista dopo aver preso le misure del paziente e aver scelto il materiale più adatto, oltre che il grado di compressione.
In generale, possiamo affermare che l’utilizzo di una calza di seconda classe, nei soggetti a rischio, potrà consentire una prevenzione efficace della trombosi in aereo.

Sempre in base a queste raccomandazioni, i soggetti non a rischio non necessitano di questo presidio.

Profilassi farmacologica

In caso di rischio particolarmente elevato, per prevenire la trombosi in aereo è necessario ricorrere ai farmaci.

Gli antiaggreganti piastrinici non si sono dimostrati efficaci nella prevenzione della trombosi nei voli a lungo raggio. In un recente studio, infatti, l’assunzione di 400 mg al giorno di aspirina non si è associata a significativa riduzione del tasso di trombosi in aereo, causando invece frequenti disturbi gastro-intestinali.

L’eparina a basso peso molecolare, sotto forma di punture sottocutanee, ha mostrato invece risultati a tratti controversi.
Se è vero che l’assunzione di Enoxaparina, sotto forma di punture sottocutanee al dosaggio di 1 mg per ogni Kg di peso corporeo, è efficace nel prevenire la trombosi in aereo se somministrata da 2 a 4 ore prima della partenza, questo protocollo non può essere esteso a tutti i soggetti e ogni caso va valutato in funzione del rapporto rischio/beneficio.

Infatti, l’assunzione di questo farmaco può provocare anche problemi di sanguinamento, ed il rischio di emorragia va valutato scrupolosamente anche perché aumenta in relazione ad altri fattori clinici.

Quando è indicata, la profilassi con eparina può essere fatta al momento della partenza per l’aeroporto; il suo effetto durerà circa 24 ore e quindi sarà sufficiente per coprire l’intera durata del viaggio.

Conclusioni

In attesa di riprendere a viaggiare, conoscere il problema della trombosi in aereo potrà essere d’aiuto ai soggetti con fattori di rischio e anche alla popolazione generale, perchè con semplici accorgimenti si potrà prevenire una complicazione piuttosto seria e più frequente di ciò che si pensa.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6326126/pdf/jvb-17-03-215.pdf

https://www.ejves.com/action/showPdf?pii=S1078-5884%2805%2900541-1

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6457834/pdf/CD004002.pdf

https://watermark.silverchair.com/jtm10-0334.pdf?token=AQECAHi208BE49Ooan9kkhW_Ercy7Dm3ZL_9Cf3qfKAc485ysgAAAqkwggKlBgkqhkiG9w0BBwagggKWMIICkgIBADCCAosGCSqGSIb3DQEHATAeBglghkgBZQMEAS4wEQQMdVXDv0y0YE1VlPooAgEQgIICXJc3KnQSkyCddIOiRFmV1-i__NkGRTzeeLmLZeqXPOfUKF0uljVE_CuRDw20DMBmfyhv7NVJXqI3qJZK3cJSCuoHIQowtz99vS1FoHLDj8lRVqUvkS4alNF_Vkj1wN_m1t35hMw4fxSxcGSzhAH_Ow_6HclCwWrkNuzFoo6Vg_cu5j8PUgmW652BEFjbCY4wtMUJ54lge0RYZs-yRJKfok-lg0kyYT2UHmZmGx1-Hmj0b69nNPzvYquTVlpBo7Zc8KLRWsm4k4j3BaR647NHglchZIR1K3xYZb_rQH_0LUYCIXiKMXPFWGmhSPnHV_i_OcIogfVH7U09YCXfwl2cOm58kbhGI6Oa4Jvxs-I3uk_gcEjps19XWGL0EP5tXn3OuczS8gzmRCwYNbqV13GQ1ed4VgJRWdri6CKauhwdE4P95sfFfhLMr9kwtlamrd7Amfx2o-UCxvo63-ZsWR_gelJbRGcVZhGcLuW2s3a_LlXMDIf9vhDcAtCJ05j-h-AYryRHFOBmtNxjFlCbK6pMf_W_XAkh2lP4W6X2dg-MVq0QAuphj9CHLhxye8T8BioYjqXVIxPQaLfoMTC8Vd9IIyEwwDacSs_0OSEFAkK9P43PdgZ4HsMlWZoOtWSGnWh2HRNGX_Bd_jVVm0-peG6jWf1hsCZvGFOnkAG5YqsDx_JxVHmLOIasvtmRLA8NjblSVyP4we1DBQGKTXoeEco8NIbibqClGHkHevJzQ98BSe0zekqs-4yW634ovIqaQrRYYajmnL4rySnwAMgJwUiWVn0hw0PmtrcWP9seh9o

La trombosi in gravidanza è più frequente in soggetti geneticamente predisposti

Trombosi in gravidanza: tutto ciò che bisogna sapere

La comparsa di una trombosi in gravidanza è un problema da tenere certamente in considerazione quando una donna si appresta ad affrontare la gestazione.
Le donne in gravidanza, infatti, hanno un rischio cinque volte maggiore di sviluppare una trombosi rispetto alle donne non gravide, e nei paesi occidentali la trombosi in gravidanza è la principale causa di morte materna.

È importante che le donne conoscano questa patologia, che peraltro desta molta preoccupazione anche nella popolazione generale.
Infatti, conoscere la propria situazione di rischio e saper rilevare eventuali sintomi permetterà di agire rapidamente e con efficacia, qualora si verificasse il problema.

Che cos’è la trombosi in gravidanza

La trombosi in gravidanza è un processo di coagulazione improvvisa del sangue all’interno di una vena, che avviene nel periodo della gestazione.
Questa condizione clinica interessa più frequentemente le vene degli arti inferiori, sia superficiali che profonde, ma può colpire anche le vene della pelvi, cioè la parte bassa dell’addome.

Il motivo principale per cui la trombosi è pericolosa è legato alla possibilità di una embolia.
Gli emboli sono dei frammenti di sangue coagulato che si staccano dalla sede di trombosi e seguono il flusso del sangue, che li veicola prima al cuore e poi ai polmoni, dove terminano la loro corsa ostruendo i vasi della circolazione polmonare.
La comparsa di una embolia ai polmoni si manifesta con dolore al torace e difficoltà a respirare, ed è una complicanza grave che può essere anche mortale.

Il secondo fattore di pericolosità legato alla trombosi in gravidanza è il possibile sviluppo di una sindrome post trombotica.
Questa condizione clinica è caratterizzata da un gonfiore ingravescente della gamba dovuto all’esteso danneggiamento che la trombosi causa alle vene, che diventano incapaci di drenare il sangue.

La sindrome post trombotica compare con maggiore frequenza se la trombosi interessa le vene iliache o femorali, evenienza che tra l’altro è particolarmente frequente in gravidanza.
Se non trattata precocemente, la sindrome post trombotica diventa irreversibile e può causare la comparsa di fibrosi e ulcere alle gambe.

Cause della trombosi in gravidanza

Il rischio di trombosi in gravidanza è dovuto all’aumentata facilità con cui il sangue coagula all’interno delle vene.
Ci sono persone più predisposte di altre alla trombosi in quanto presentano determinati fattori di rischio, sia legati alla genetica che ad eventi patologici ambientali.
In presenza di fattori di rischio, la possibilità di sviluppare una trombosi è la stessa in tutti e tre i trimestri della gravidanza, e diventa addirittura più alta nelle prime sei settimane dopo il parto.

In generale, la trombosi all’interno di una vena si sviluppa in conseguenza di tre meccanismi:
– ristagno di sangue;
– alterazioni delle cellule della parete venosa;
– modificazioni nei componenti del sangue che attivano la coagulazione.
In gravidanza sono implementate tutte e tre queste situazioni.

Primo, durante la gravidanza si verifica un persistente ristagno del sangue nelle gambe e nella pelvi a causa dell’azione degli ormoni sessuali femminili, che riducono il tono delle vene facendo diminuire la loro attività propulsiva.
Inoltre, il progressivo ingrandimento dell’utero gravidico crea un ostacolo meccanico al ritorno di sangue al cuore, aggravando la situazione.
A causa di fattori anatomici, l’arto inferiore sinistro è più colpito da questo fenomeno, in quanto la vena iliaca sinistra passa dietro la sua arteria satellite, che la schiaccia.

Secondo, al momento del parto le vene pelviche possono subire un danneggiamento meccanico a causa della spinta espulsiva del feto, sviluppando una trombosi.
La trombosi delle vene pelviche, peraltro, è piuttosto rara al di fuori della gravidanza.

Il terzo fattore favorente la trombosi in gravidanza è il più importante. Lo sviluppo di iper-coagulabilità del sangue è dovuto alla necessità, da parte dell’organismo, di fronteggiare il rischio di emorragie legate al parto. Ricordiamo, infatti, che nei paesi sottosviluppati l’emorragia è la principale causa di morte materna.
Sotto lo stimolo ormonale, la donna in gravidanza produce una maggiore quantità di proteine della coagulazione, sviluppando di conseguenza una forte suscettibilità del sangue a coagulare.

Sintomi della trombosi in gravidanza

Se la trombosi in gravidanza interessa le vene superficiali delle gambe, i sintomi principali sono il dolore e l’arrossamento lungo il decorso della vena.
Inoltre, spesso in gravidanza compaiono delle vene varicose, a causa dell’azione ormonale e dell’ingrossamento dell’utero, ed è noto che le vene varicose sviluppano più facilmente una trombosi rispetto alle vene sane.

Una trombosi in gravidanza può essere legata alla presenza di vene varicose

Quando sono colpite le vene profonde delle gambe, invece, il rischio di embolie polmonari è statisticamente più alto.
I sintomi più comuni, in questo caso, sono il gonfiore o il dolore acuto ad una gamba, spesso presenti contemporaneamente; altre manifestazioni possono essere l’arrossamento o la difficoltà a camminare.

Come già detto, in gravidanza aumenta l’incidenza di trombosi della vena iliaca, una grossa vena della pelvi che raccoglie tutto il sangue dell’arto inferiore corrispondente convogliandolo alla vena cava inferiore, che a sua volta lo porterà al cuore.
Una trombosi iliaca può manifestarsi con dolore addominale o dorsale e con gonfiore acuto che interessa tutto l’arto; siccome questi sintomi possono essere ricondotti alla gravidanza stessa, a volte capita di non riconoscere una trombosi iliaca e ritardandone la diagnosi.
In gravidanza, infatti, le gambe tendono a gonfiarsi per l’ostruzione linfatica causata dalla crescita del feto, mentre il dolore pelvico o dorsale può essere correlato all’azione meccanica dell’utero che agisce come un peso.

Come si diagnostica una trombosi in gravidanza

Se compaiono sintomi suggestivi di trombosi in gravidanza, la prima cosa da fare è recarsi con urgenza ad effettuare un ecodoppler venoso. Questo esame, totalmente non invasivo, permette infatti di riscontrare velocemente la presenza di una eventuale trombosi.

Una trombosi in gravidanza può essere diagnosticata con l'ecodoppler

Nel caso ci sia un forte sospetto legato ai sintomi ma non sia possibile fare subito l’ecodoppler, è consigliato iniziare immediatamente la terapia anticoagulante con le punture di eparina, a meno che questo farmaco sia controindicato.
Una volta effettuato l’ecodoppler si potrà capire se il trattamento va continuato o meno, e in questo modo si eviterà di restare senza terapia nel caso in cui la trombosi fosse effettivamente in atto.

Se è presente una trombosi pelvica, l’ecodoppler venoso potrebbe non essere in grado di riscontrarla. In tal caso, la paziente dovrà eseguire una risonanza magnetica addominale con mezzo di contrasto, evitando invece la TAC, che comporterebbe una grossa dose di radiazioni per il feto.

Infine, ricordo che il dosaggio del D-Dimero nel sangue non ha molta utilità durante la gravidanza, al contrario di quanto accade in una situazione normale.
Questa molecola, infatti, è fisiologicamente aumentata durante la gestazione, perché è un frammento di degradazione di una proteina coagulativa, e al pari delle altre molecole di questa categoria viene prodotta in quantità maggiore sotto lo stimolo ormonale.

Profilassi e terapia della trombosi in gravidanza

In presenza di determinati fattori predisponenti è consigliato prevenire la trombosi in gravidanza attraverso una profilassi con terapia anticoagulante.
Quando si fa una profilassi, il dosaggio è di solito ridotto a una somministrazione al giorno, e al momento del parto, solitamente spontaneo, non viene sospesa la terapia.

In presenza di una trombosi in gravidanza, invece, è opportuna una terapia anticoagulante a dosaggio pieno, di solito mediante due somministrazioni giornaliere, in quantità dipendente dal peso.
Il parto viene generalmente programmato, in modo da sospendere la terapia anticoagulante alcuni giorni prima.

Il farmaco di prima scelta, sia per la profilassi che per la terapia, è l’eparina a basso peso molecolare, sotto forma di punture sottocutanee.
Questo farmaco è generalmente ben tollerato, ma a volte può provocare un calo delle piastrine oppure generare una risposta allergica; inoltre, essendo espulsa attraverso i reni, tende ad accumularsi eccessivamente nelle persone con problemi di insufficienza renale.

La trombosi in gravidanza viene trattata con le punture di eparina

In presenza di una controindicazione alla somministrazione di eparina, il farmaco di seconda scelta è il Fundaparinux, sempre sotto forma di punture sottocutanee; questa sostanza, che inibisce una specifica molecola della coagulazione, non avrebbe però ancora una totale evidenza di sicurezza in gravidanza, e per questo va usata in casi selezionati.

Per quanto riguarda gli anticoagulanti assunti per bocca, sappiamo che il Warfarin attraversa la placenta ed ha un noto effetto teratogeno sul feto, cioè causa la comparsa di malformazioni. Per questo motivo non può essere assunto in gravidanza.
I nuovi farmaci anticoagulanti orali, chiamati con l’acronimo DOAC’s, sembrerebbero attraversare la placenta, e al momento i potenziali rischi sul feto non sono conosciuti.

Chi è a rischio di trombosi in gravidanza

Nonostante il fisiologico aumento della coagulabilità del sangue, la maggior parte delle donne in gravidanza non necessita di profilassi, perché i rischi di emorragia supererebbero quelli di trombosi.

Ci sono, però, alcune categorie di persone maggiormente a rischio di trombosi in gravidanza; queste persone dovranno quindi effettuare la profilassi con l’eparina, in alcuni casi prima del parto (ante partum), in altri dopo il parto (post partum).
Le donne che devono fare la profilassi prima del parto devono iniziarla precocemente nel primo trimestre, in quanto, come già detto, il rischio di trombosi è lo stesso in tutti e tre i trimestri.

In generale, le donne maggiormente a rischio di trombosi in gravidanza sono quelle che hanno avuto trombosi venose in passato, oppure quelle che sono affette da alcune mutazioni genetiche che le predispongono alla trombosi.
Altri fattori di rischio sono l’età maggiore di 35 anni, la nulliparità (cioè il non avere avuto parti precedenti), l’obesità, l’immobilizzazione prolungata e il fumo di sigaretta.

Anche in presenza di alcuni auto-anticorpi, cioè anticorpi diretti contro molecole normalmente presenti nell’organismo, c’è un maggior rischio di trombosi.
Gli anticorpi maggiormente responsabili di questo fenomeno sono il Lupus Anticoagulans e gli anticorpi anti-fosfolipidi.

Nel periodo dopo il parto, i principali fattori di rischio sono ancora l’immobilizzazione prolungata, l’ipertensione gravidica oppure l’essere state sottoposte ad interventi chirurgici, come il taglio cesareo.

Chi deve fare la profilassi

La società Americana di Ematologia ha prodotto nel 2018 delle linee guida che sintetizzano le evidenze più recenti della letteratura, fornendo delle indicazioni ai medici su chi sottoporre a profilassi per prevenire la trombosi in gravidanza.
Ricordo che le linee guida forniscono dei livelli di evidenza per una data terapia e non rappresentano la verità assoluta, ma piuttosto una rotta da seguire per il medico quando deve dare indicazioni alle pazienti.

Per quanto riguarda la trombosi in gravidanza, queste linee guida ci dicono che la necessità di profilassi con l’eparina si basa sulla presenza o meno di fattori di rischio acquisiti oppure genetici; vediamoli nello specifico.

Fattori acquisiti e trombosi in gravidanza

Le donne che hanno avuto precedenti trombosi venose spontanee oppure provocate da fattori di rischio ormonali, come ad esempio l’assunzione di pillola anticoncezionale, dovrebbero sottoporsi alla profilassi prima del parto.
D’altro canto, le donne che hanno avuto precedenti trombosi ma secondarie a fattori di rischio non ormonali, non dovrebbero sottoporsi a tale profilassi.

Entrambe queste categorie di donne, cioè che hanno avuto precedenti trombosi venose, dovrebbero però sottoporsi alla profilassi post partum.

Fattori genetici e trombosi in gravidanza

Ci sono diverse mutazioni genetiche che predispongono alla trombosi venosa, e in gravidanza la percentuale di rischio aumenta ulteriormente.
Infatti, il 50% circa delle trombosi in gravidanza è legato a predisposizione genetica ereditaria.

Queste mutazioni colpiscono dei geni relativi a proteine coinvolte nella coagulazione del sangue; le forme mutate facilitano maggiormente la coagulazione del sangue rispetto alle forme normali.
Esistono forme eterozigoti, cioè con un gene sano e uno mutato, e forme omozigoti, più pericolose in quanto entrambi i geni sono mutati.

Fattore di Leiden

Rappresenta la mutazione più frequente nella popolazione europea e asiatica, e riguarda la quinta proteina della cascata coagulativa.

Forma eterozigote – non è necessaria la profilassi ante partum, indipendentemente dalla storia di trombosi all’interno della famiglia della paziente, sempre se la paziente non ha avuto precedenti trombosi.
Anche la profilassi post partum non sembrerebbe consigliata.
Forma omozigote – è consigliata la profilassi sia in gravidanza che nel post partum, indipendentemente dalla storia familiare di trombosi.

Mutazione della protrombina (G20210A)

Questa mutazione fa aumentare i livelli nel sangue di protrombina, una delle ultime proteine coinvolte nel processo coagulativo.

Forma eterozigote – indipendentemente dalla storia familiare di trombosi, non è indicata la profilassi prima e dopo il parto.
Forma omozigote – in assenza di storia familiare di trombosi non è indicata la profilassi ante partum; è generalmente indicata la profilassi post partum.

Deficit di proteina C o proteina S

Si tratta di due proteine che regolano la coagulazione del sangue, evitando che si attivi eccessivamente.
La mutazione le rende presenti in minore concentrazione del normale, favorendo quindi la coagulazione e il rischio di trombosi.

In presenza di mutazione di queste proteine, la profilassi ante partum non è indicata, mentre la profilassi post partum è indicata solo se c’è una storia familiare di trombosi.

Deficit di antitrombina III

Anche questa glicoproteina controlla la coagulazione del sangue, evitando che si attivi troppo; la mutazione la rende carente nella sua forma attiva, predisponendo alla trombosi.

In assenza di storia familiare di trombosi, non è consigliata la profilassi ante partum e post partum, mentre se la storia familiare è positiva la profilassi andrebbe fatta sia prima che dopo il parto.

Conclusioni

Le donne in gravidanza dovrebbero conoscere la trombosi in gravidanza e sapere qual è il loro livello di rischio.
In presenza di mutazioni genetiche o di fattori di rischio acquisiti, la figura di riferimento per le indicazioni sulla profilassi e la terapia dovrebbe essere l’ematologo.

Se durante la gravidanza compaiono delle vene varicose nelle gambe oppure si manifestano dolori o gonfiori, bisogna consultare un angiologo ed effettuare una visita comprensiva di ecodoppler; in questo modo si potrà conoscere la propria situazione vascolare e prevenire eventualmente una trombosi, utilizzando, ad esempio, una calza elastica adeguata.

Ancora una volta, chi è ben informato previene il problema, e lo cura più efficacemente nel caso dovesse verificarsi.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5778511/pdf/cdt-07-S3-S309.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6258928/pdf/advances024802CG.pdf

Le ulcere alle gambe richiedono uno specialista competente

Ulcere alle gambe: quando il problema è vascolare

La presenza di ulcere alle gambe è un problema grave che interessa fino all’1,5% della popolazione, anche se man mano che si avanza con l’età aumenta il numero di persone affette.
Le ulcere alle gambe comportano un peggioramento della qualità di vita della persona, sia per il dolore che provocano sia per lo stress dovuto alla limitazione nei movimenti, nella vita sociale e nell’igiene personale.

Indubbiamente, la maggior parte delle ulcere alle gambe è dovuta a problemi di circolazione.
A volte, però, le ulcere hanno cause meno comuni, e ciò rende difficile identificarne il problema alla base; inoltre, spesso non si trova lo specialista giusto che possa risolverlo.

Molti di noi potrebbero avere un genitore anziano o un nonno che soffre di questo problema. Conoscere le cause delle ulcere alle gambe, oltre che ciò che le differenzia tra di loro, è utile per orientarsi su come gestirle e a chi rivolgersi.

Cosa sono le ulcere alle gambe e come guariscono

Le ulcere alle gambe sono delle lesioni della barriera cutanea con perdita di sostanza; presentano sempre una esposizione del derma, cioè lo strato di tessuto sotto l’epidermide, e a volte anche di strutture più profonde come muscoli e tendini.
Le ulcere alle gambe si definiscono croniche quando sono presenti da almeno 6 settimane e non mostrano tendenza alla guarigione per un periodo di almeno 3 mesi.

Generalmente, le ulcere alle gambe guariscono attraverso tre fasi di durata diversa.
Nella fase infiammatoria, lo stimolo lesivo attiva nell’organismo la risposta infiammatoria, un esercito di molecole e cellule che, in modo aspecifico, tenta di distruggere l’elemento che ha avviato il danno.
La stessa infiammazione, però, con il tempo danneggia anche i tessuti dell’organismo stesso, favorendo la permanenza dell’ulcera.

Alla fase infiammatoria segue la fase proliferativa, che dura fino ad un mese e che è caratterizzata dalla formazione di nuovi tessuti e vasi sanguigni, che coprono l’ulcera fino a farla guarire.
Nella successiva fase di rimodellamento, che durerà fino ad un anno, i tessuti generati per guarire vengono ristrutturati e riorganizzati, sostituendo progressivamente le cellule con matrice fibrosa.

Le ulcere croniche rimangono bloccate nel passaggio tra la fase infiammatoria e quella proliferativa, almeno fino a che non ne viene rimossa la causa.
Naturalmente, essendo compromessa la funzione di barriera della cute, possono crescere batteri e svilupparsi infezioni, che complicano ulteriormente il decorso della lesione.

Cause vascolari delle ulcere alle gambe

Le ulcere alle gambe sono causate nell’80% dei casi da problemi vascolari.
Si tratta per lo più di alterazioni della circolazione venosa, legate cioè a ristagno di sangue dovuto a reflusso nelle vene oppure esiti di trombosi importanti.

Negli altri casi parliamo di ulcere arteriose, cioè dovute a ostruzione delle arterie, oppure di ulcere diabetiche, quando questa malattia colpisce i vasi e i nervi compromettendo la vitalità dei tessuti.

C’è da ricordare che spesso, soprattutto negli anziani, sono presenti più cause in uno stesso paziente che concorrono allo sviluppo dell’ulcera; si parla in questo caso di ulcere miste.

Ulcere venose

Le ulcere venose sono le più frequenti tra quelle legate a problemi di circolazione.
Il problema alla base è l’insufficienza venosa, una malattia che causa la progressiva perdita di funzione drenante delle vene delle gambe e che con il tempo causa un ristagno di sangue nelle parti più declivi, tipicamente alle caviglie.

Il sangue fermo attiva le cellule dei capillari sanguigni che diventano più permeabili, provocando in questo modo un accumulo di liquidi e cellule nei tessuti extracellulari. Inoltre, viene attivata la risposta infiammatoria che, cronicizzandosi, distrugge gli stessi tessuti causando la formazione dell’ulcera.

Le ulcere alle gambe possono essere causate da insufficienza venosa

Come riconoscerle?
Le ulcere venose si localizzano tipicamente alle caviglie, soprattutto al malleolo interno, sono abbastanza superficiali e possono produrre molto liquido a causa del concomitante edema alla gamba.
Infatti, le ulcere venose si accompagnano spesso ad una gamba gonfia e alla presenza di macchie scure alle caviglie, che sono altri segni dovuti all’insufficienza venosa.

Il trattamento delle ulcere venose prevede una corretta terapia compressiva e farmacologica, oltre che il trattamento del problema venoso che l’ha provocata; bisogna rivolgersi ad un medico specialista nell’ambito flebologico.

Ulcere arteriose

Le ulcere arteriose sono causate dalla diminuzione del flusso di sangue proveniente dalle arterie, quando queste sono ristrette oppure ostruite a causa dell’aterosclerosi.
L’aterosclerosi colpisce la parete delle arterie determinando lo sviluppo di placche aterosclerotiche, delle masse solide o semi-liquide che crescono progressivamente ostruendo il vaso oppure causando la partenza di emboli, cioè frammenti solidi che, seguendo il flusso del sangue, chiudono i vasi più piccoli a valle.

Le ulcere arteriose sono molto dolorose e si localizzano tipicamente alle estremità del piede, anche se possono avere una localizzazione variabile, in particolare sulle prominenze ossee. Si possono riconoscere per la presenza di tessuto necrotico, cioè nerastro e devitalizzato, e per la scarsa produzione di liquido.

Il primo passo per la guarigione delle ulcere arteriose è quello di pianificare un intervento per aumentare l’apporto di sangue; non bisogna assolutamente grattare o incidere queste ulcere, in quanto il trauma peggiorerebbe il danno e l’ulcera potrebbe ingrandirsi ulterioremente.
In questi casi bisogna rivolgersi al chirurgo vascolare.

Ulcere diabetiche

Il diabete è una malattia insidiosa che, attraverso meccanismi legati all’aumento degli zuccheri nel sangue, causa un danno alla microcircolazione della cute, di alcuni organi e dei nervi; una regione particolarmente colpita è proprio il piede.

Anche se lo sviluppo di ulcere alle gambe nel diabete può essere dovuto a problemi di circolazione, nella maggior parte dei casi il problema alla base è la neuropatia diabetica.
Si tratta di una progressiva degenerazione dei nervi periferici che comporta la perdita della sensibilità, di parte del movimento muscolare e del corretto funzionamento di ghiandole cutanee e vasi sanguigni.

Le ulcere alle gambe possono essere causate dal diabete

In presenza di neuropatia diabetica il paziente non avverte il dolore, le vibrazioni, la pressione e la temperatura. Di conseguenza, traumi anche banali come tagliarsi le unghie o esercitare piccole pressioni ripetute possono causare la formazione di ulcere, tipicamente alla pianta del piede o alle dita.
Oltretutto, la neuropatia compromette la secrezione di sudore ed il normale trofismo della pelle, aggravando così la situazione e favorendo lo sviluppo di infezioni, già facilitate dal diabete stesso.

Le ulcere diabetiche si riconoscono per l’aspetto circolare, sono circondate da pelle più spessa del normale e si localizzano alla pianta del piede nelle zone sottoposte a pressione, diventando spesso penetranti.
La prima cosa da fare per trattarle correttamente è alleviare lo stimolo pressorio.

A chi rivolgersi? In questi casi il diabetologo e il chirurgo vascolare dovrebbero lavorare in sinergia.

Ulcere vascolari meno frequenti

Alcune malattie vascolari più rare possono causare la formazione di ulcere alle gambe; si tratta di condizioni poco conosciute e a volte difficili da riconoscere.

Malattia di Buerger

Questa patologia provoca l’ostruzione di arterie e vene di piccolo e medio calibro, soprattutto a livello degli arti inferiori dove possono svilupparsi delle ulcere molto dolorose.
La malattia colpisce tipicamente i soggetti fumatori di sesso maschile, di età relativamente giovane (di solito sotto i 50 anni).

L’aspetto caratteristico di questa patologia è che, a differenza dell’aterosclerosi, non colpisce la parete dei vasi ma causa una coagulazione del sangue al loro interno; il risultato è comunque un arresto della circolazione periferica.
Le ulcere alle gambe, in questa malattia, sono molto dolorose, e se non cessa l’abitudine al fumo possono ingrandirsi velocemente rendendo necessaria l’amputazione.

Lo specialista di riferimento è l’angiologo o il chirurgo vascolare.

Emboli di colesterolo

A volte le ulcere alle gambe sono causate dal distacco di frammenti di colesterolo dalle placche aterosclerotiche; seguendo il flusso del sangue, questi frustoli finiscono nei vasi più piccoli sotto la cute e li occludono.
Questo problema colpisce soprattutto i maschi affetti da aterosclerosi, e può verificarsi più facilmente se le placche aterosclerotiche vengono manipolate in corso di altre procedure mediche.

Gli emboli di colesterolo possono causare la formazione di ulcere oppure, più tipicamente, mandano in sofferenza un dito del piede, che diventa dapprima bluastro e poi nero, a causa della sopraggiunta necrosi.
Il trattamento deve essere tempestivo e volto ad eliminare la placca aterosclerotica attraverso una procedura di chirurgia vascolare.

Calcifilassi

Questa patologia colpisce le persone con insufficienza renale terminale e diabete di lunga durata, quando il calcio si deposita in modo anomalo ed eccessivo nelle pareti delle piccole arterie cutanee.
I quadri clinici sono molto gravi, in quanto si sviluppano ulcere necrotiche molto dolenti e spesso difficili da trattare; anche la malattia di base compromette di per sé la prognosi.

Il trattamento in genere è poco efficace, perché non si riesce a ristabilire una circolazione di sangue efficace e duratura.

Atrofia bianca o vasculopatia livedoide

La vasculopatia livedoide è una malattia abbastanza rara che colpisce i piccoli vasi sanguigni determinando la comparsa di ulcere ricorrenti, che spesso guariscono lasciando una cicatrice bianca di forma stellata.
Questa condizione colpisce di più le donne, e le ulcere si localizzando di solito in entrambi gli arti a livello delle caviglie.

Tra le ulcere alle gambe possiamo riscontrare la vasculopatia livedoide

In un terzo dei casi non si trova una causa; nei rimanenti, si è osservata una associazione con malattie autoimmuni o alterazioni della coagulazione del sangue.

Ulcera di Martorell

Si tratta di una lesione rara, che colpisce tipicamente le donne affette da forme particolarmente gravi di ipertensione arteriosa, quando i vasi cutanei sono talmente irrigiditi da compromettere l’apporto di sangue ai tessuti.

Sono ulcere molto dolorose, con dei bordi netti e rilevati, localizzate tipicamente nella parte laterale o posteriore della gamba.
In presenza di ulcera di Martorell, le arterie sono pervie e non ci sono segni di insufficienza venosa.

La terapia prevede innanzitutto il controllo della pressione del sangue. Le ulcere piccole possono guarire con medicazioni adeguate, mentre quelle più grandi vanno coperti con innesti di pelle.

Conclusioni

La gran parte delle ulcere alle gambe è causata da problemi di circolazione.
Conoscere le cause di questo problema ci può aiutare a scegliere lo specialista più adatto e ad effettuare una prima gestione delle lesioni.

Come anticipato, a volte le ulcere sono causate da altre patologie che non hanno a che fare con un problema primario di circolazione. In un prossimo articolo analizzeremo queste cause meno frequenti ma comunque importanti da conoscere.

La ritenzione idrica può essere contrastata con una corretta integrazione

Ritenzione idrica nelle gambe: quali rimedi?

La presenza di ritenzione idrica nelle gambe viene lamentata da molte donne, soprattutto nel periodo primaverile ed estivo, è fonte di disagio ed è difficile da contrastare.
Si tratta sostanzialmente della percezione o sensazione di gonfiore localizzata alle caviglie, ai piedi, alle gambe o a volte alle cosce; naturalmente il gonfiore è frequentemente anche oggettivo.

Questo problema può accompagnarsi a dolori crampiformi o senso di pesantezza alle gambe, oppure a bruciore e indolenzimento.
Le cause di questa condizione sono difficilmente riconducibili ad un unico fattore, in quanto si tratta per lo più di forme miste dovute a predisposizione genetica e azione degli ormoni estrogeni.

Cause della ritenzione idrica

Con il termine ritenzione idrica si intende una generica tendenza a trattenere liquidi all’interno dell’organismo.
La ritenzione idrica propriamente detta dovrebbe accompagnarsi ad un aumento del peso corporeo o del volume degli arti, oppure presentarsi sotto forma di edema alla gamba, quando la pressione delle dita lascia un’impronta (il cosiddetto segno della “fovea”).

Il problema a cui ci riferiamo nello specifico, invece, a che fare con ristagno di acqua e linfa nella rete di tessuto connettivo che si trova nel contesto del grasso sottocutaneo degli arti inferiori.

La ritenzione idrica spesso si accompagna a dolore e pesantezza alle gambe

Perché succede questo?
Acqua e molecole filtrano regolarmente dai capillari sanguigni ai tessuti dove portano ossigeno e nutrimento, per poi essere raccolte dai capillari linfatici.
In alcune condizioni come la cellulite, oppure negli stadi iniziali del lipedema, c’è invece una tendenza intrinseca dei capillari ad essere più permeabili del normale, il che risulta in un accumulo di liquidi nei setti di connettivo che accolgono gli stessi capillari.
Questo processo a sua volta causa la ritenzione idrica.

Inoltre, quando la temperatura esterna aumenta, e le vene diminuiscono la loro attività per disperdere calore, questo meccanismo vizioso può essere indirettamente favorito.
Il ristagno di sangue dovuto ad ipotonia venosa e reflusso è alla base dell’edema che si forma nell’insufficienza venosa, ed è noto che la cellulite e la stessa insufficienza venosa vanno frequentemente di pari passo, sotto l’azione degli ormoni femminili.

Quali sostanze possono contrastare la ritenzione idrica?

Per combattere la ritenzione idrica nelle gambe servono delle sostanze che regolino la permeabilità dei capillari, possibilmente migliorino il tono venoso, cioè l’attività propulsiva delle vene, e “aggiustino” il funzionamento dei capillari linfatici.
Queste sostanze dovrebbero anche contrastare l’infiammazione e il danno ossidativo, perché quando i capillari filtrano di più attivano anche la risposta infiammatoria, tanto è vero che insufficienza venosa e cellulite si associano nel lungo termine ad infiammazione nella matrice extracellulare e fibrosi.

Premesso che è fondamentale idratarsi abbondantemente, non esiste un rimedio che cambi la situazione in modo fulmineo, anche perché la problematica è subdola e i meccanismi che la regolano rappresentano un bersaglio eterogeneo, difficile da colpire.
Abbiamo però a disposizione delle molecole, per lo più naturali, che hanno una azione flebotonica, cioè supportano la microcircolazione ed il funzionamento il sistema veno-linfatico, aiutandoci a contrastare il problema.

Conoscerle fornisce degli strumenti in più che si possono sfruttare.

Ruscus

Il Ruscus Aculeatus è una pianta cespugliosa sempreverde che produce delle grosse bacche rosse e forma delle foglie pungenti, per questo si chiama anche “pungitopo”.
L’estratto delle sue radici contiene delle sostanze chiamate saponine; esse hanno una nota funzione di supporto del sistema venoso, sono antiossidanti, cioè proteggono le cellule dai danni chimici, e hanno una azione diuretica.

La ritenzione idrica può essere contrastata con il Ruscus

Il meccanismo di azione dell’estratto di Ruscus sulla ritenzione idrica è legato all’azione dell’adrenalina e della noradrenalina sulle pareti delle vene.
Queste molecole stimolano le cellule muscolari dei vasi a contrarsi per far progredire il sangue, ed il Ruscus ne potenzia l’azione a livello recoettoriale, favorendo anche il rilascio in quantità maggiore della sostanza.
In questo modo, l’aumento del flusso capillare andrà di pari passo con una minore permeabilità, e quindi contrasterà la ritenzione idrica.

Negli studi sugli animali, il Ruscus ha mostrato un effetto dose-dipendente di aumento della contrazione delle vene e dei vasi linfatici, aumento della resistenza dei capillari e diminuzione della loro permeabilità, oltre che di contrasto all’azione infiammatoria dei globuli bianchi.
Nell’uomo, vari studi hanno analizzato questa sostanza in persone con insufficienza venosa, sia in forme lievi con presenza di soli capillari, sia in forme gravi con gonfiori importanti, ulcere ed esiti di trombosi.

Il Ruscus mostra un’alta efficacia sia nella riduzione dei sintomi come pesantezza, dolore, crampi, fatica e formicolio, sia nel contrasto alla ritenzione idrica, misurata quantitativamente come diminuzione della circonferenza alla caviglia e diminuzione del volume dell’arto.
Un fatto interessante è che nella popolazione studiata c’erano soggetti con capillari visibili sulle gambe e sintomi come pesantezza e gonfiore, cioè persone, per lo più di sesso femminile, molto rappresentative del problema di cui parliamo.

Negli studi analizzati, il Ruscus è stato somministrato per tre mesi in associazione con Esperidina, una sostanza flavonoide naturale, e in alcuni casi con Vitamina C.
L’associazione di 150 mg di Ruscus + 1 g di Vitamina C al giorno è un valido rimedio per contrastare la ritenzione idrica.

Escina

L’escina è un’altra sostanza appartenente alla categoria delle saponine; la troviamo nell’estratto dei semi di ippocastano.
Questa molecola contrasta l’infiammazione e riduce la permeabilità dei capillari, agendo quindi in opposizione ai meccanismi che determinano la ritenzione idrica. Inoltre, ha una azione protettiva proprio sulle cellule dei capillari sanguigni.

La ritenzione idrica può essere contrastata con l'escina

L’escina aumenta direttamente anche il tono venoso. Uno studio effettuato su vene safene prelevate chirurgicamente, tuttavia, ha mostrato che funziona poco o nulla se il vaso è molto tortuoso, quindi si può ipotizzare una sua maggiore efficacia negli stadi inziali dell’insufficienza venosa, quando ancora non si sono sviluppate vene varicose.

Per quanto riguarda la letteratura scientifica disponibile, la gran parte degli studi è stata effettuata in soggetti con insufficienza venosa.
L’escina si è mostrata efficace miglioramento di sintomi come il senso di gonfiore, mentre nella sindrome post trombotica non vi è ancora evidenza di una sua azione positiva in termini di prevenzione e trattamento.
La dose somministrata è stata di 40 mg per bocca per 21-25 giorni. Il dosaggio generalmente consigliato, tuttavia, è di 100 mg al giorno; va prestata attenzione se si soffre di patologie al fegato o di insufficienza renale.

Infine, anche sotto forma di gel l’escina si è mostrata efficace, questa volta nel migliorare gli edemi post traumatici (distorsioni, contusioni) ma anche il gonfiore legato all’insufficienza venosa.
Il dosaggio testato è stato di due applicazioni al giorno per tre settimane.

Rutina

La rutina è una sostanza appartenente alla categoria dei flavonoli, la troviamo nella pianta denominata Ruta Glaveolens ma soprattutto in alcuni alimenti come il grano saraceno, il , la passiflora e la mela.

Il primo aspetto interessante della rutina è legato ad un suo componente, la quercetina, che peraltro è presente nelle foglie di ibisco o karkadè, oltre che nello stesso ippocastano, nella calendula, nel biancospino, nella camomilla e nel Gingko Biloba.

La ritenzione idrica può essere contrastata con la quercetina
Tra gli alimenti, quelli particolarmente ricchi di quercetina sono il cappero, il levistico, l’uva rossa e il vino rosso, la cipolla rossa, il tè verde, il mirtillo, la mela, la propoli e il sedano.

Questa molecola determina una vasodilatazione a livello renale, che a sua volta aumenta la filtrazione di liquidi in questo organo favorendo una azione diuretica.
La quercetina, quindi, è un ottimo integratore per contrastare la ritenzione idrica, e si mostra efficace anche nel ridurre il senso di affaticamento che spesso si percepisce nel periodo primaverile ed estivo.
Il dosaggio non dovrebbe essere superiore a 300 mg al giorno.

Tornando alla rutina, ricordo che ha una potente azione antinfiammatoria e anti-proliferativa, e per questo è stata ampiamente studiata nei tumori e nelle malattie neuro-degenerative.

Centella asiatica

La Centella Asiatica è una pianta tipicamente presente in India e in altri paesi dell’Asia, la si trova ad altitudini montane e per secoli è stata usata come erba medicinale, per migliorare la memoria e il tono dell’umore.
Inoltre, è antiossidante e contribuisce a migliorare il controllo della pressione arteriosa.

La ritenzione idrica può essere contrastata con la centella asiatica

Le sostanze attive contenute nella Centella Asiatica sono anche in questo caso appartenenti alla categoria delle saponine.
Esse agiscono specificamente sul tessuto connettivo che costituisce le pareti delle vene, regolando la produzione delle molecole strutturali che lo compongono.
In particolare, l’azione si focalizza sulla sintesi di collagene, una delle sostanze cardine del tessuto connettivo stesso e che, tra l’altro, serve per la cicatrizzazione delle lesioni cutanee.
Studi su modelli animali, infatti, hanno mostrato che la Centella Asiatica velocizza la guarigione delle ferite.

In termini di ritenzione idrica, studi “in vivo” hanno mostrato un’azione protettiva della Centella Asiatica sui vasi capillari, una regolazione della loro permeabilità e un effetto antiossidante.
Nell’uomo si è osservata una riduzione della circonferenza alla caviglia, del gonfiore e del tasso di filtrazione capillare in soggetti che hanno assunto gli estratti di Centella Asiatica per 4-8 settimane. Il miglioramento è stato ottenuto anche nei sintomi soggettivi come gonfiore e pesantezza.

In queste ricerche, però, i parametri usati per definire la ritenzione idrica sono stati eterogenei, in alcuni casi quantitativi, in altri qualitativi. Oltretutto, si analizzavano soggetti con vari livelli di gravità di insufficienza venosa insieme a soggetti sani.
Queste distorsioni statistiche hanno portato a definire non ancora comprovato l’effetto della Centella Asiatica, almeno dal punto di vista strettamente scientifico.

Basandoci sull’esperienza clinica, possiamo tuttavia sfruttare le proprietà, comunque esistenti, di questa sostanza, nella dose di 60 mg da una a tre volte al giorno, per 4-6 settimane.
Bisognerebbe evitare di assumere contestualmente farmaci sedativi, perché sommerebbero la loro azione a quella della Centella, già di per sé tranquillante.

Conclusioni e consigli

Il problema della ritenzione idrica è complesso. Essa può essere ricondotta ad insufficienza venosa di tipo funzionale o a stasi linfatica, presente in alcuni stadi della cellulite e del lipedema.
Il comune denominatore sembra essere rappresentato dagli ormoni estrogeni, che agiscono sulla redistribuzione del grasso corporeo e sull’attività propulsiva delle vene e dei vasi linfatici.

Ci sono diverse sostanze che contrastano la ritenzione idrica, molte delle quali con una azione notoriamente efficace nella pratica clinica.
Secondo la letteratura più recente, mancano delle evidenze soprattutto per quanto riguarda la Centella Asiatica, a causa di fattori statistici che rendono necessarie delle ricerche più ampie e con parametri più rigidi.
Per il resto, una corretta integrazione può giocare il suo ruolo nel combattere questo problema.

Va ricordato che è importante limitare il consumo di sale e bere molto, per idratare adeguatamente la matrice extracellulare. In caso di ritenzione idrica questo tessuto è, in apparenza paradossalmente, disidratato, perchè il ristagno di liquidi si accompagna anche ad accumulo di molecole e cellule nello spazio extracellulare, rendendo questo fluido linfatico più denso del normale.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6776292/pdf/dddt-13-3425.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5355559/pdf/main.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3116297/?report=printable

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3594936/pdf/ECAM2013-627182.pdf

https://www.minervamedica.it/it/riviste/international-angiology/articolo.php?cod=R34Y2017N02A0093

http://www.sicve.it/wp-content/uploads/2016/10/Flebologia-LG-SICVE-SIF.pdf

gambe pesanti e doloranti

Rimedi per le gambe pesanti e doloranti

La presenza di gambe pesanti e doloranti è tipica del periodo primaverile/estivo e spesso si accompagna a crampi e sensazione di gonfiore. Il problema interessa soprattutto le donne, in particolare se svolgono un lavoro sedentario o se passano molte ore ferme in piedi, anche a causa del fattore ormonale legato all’azione degli estrogeni.

Questi spiacevoli disturbi possono comparire durante la giornata ma soprattutto alla sera, o in alcuni casi vengono avvertiti costantemente. Oltre alla sensazione di gambe pesanti e doloranti, si avvertono crampi, stanchezza e senso di gonfiore, che destano a volte preoccupazione in quanto fanno pensare a una trombosi o comunque a possibili eventi gravi.

Perché le gambe sono pesanti e doloranti?

La sensazione di gambe pesanti e doloranti è un sintomo tipico dell’insufficienza venosa, una patologia causata dalla progressiva perdita di funzione drenante delle vene delle gambe, che tendono a dilatarsi progressivamente alimentando il reflusso del sangue, anche a causa della perdita di continenza delle valvole venose.

Quando le vene si sfiancano, il sangue tende a ristagnare nei punti più declivi della gamba.
Questo provoca da un lato l’esordio di sintomi come dolore, pesantezza alle gambe, crampi o anche prurito, dall’altro un aumento della permeabilità dei vasi capillari e l’attivazione delle cellule del sangue, con il risultato che i liquidi fuoriescono nei tessuti generando gonfiore e infiammazione.

Anche le persone sane o con forme di insufficienza venosa solo funzionale possono avvertire gambe pesanti e doloranti in questo periodo, perché l’aumento della temperatura esterna causa una dilatazione delle vene che serve a smaltire il calore, ma che dall’altra parte è responsabile dei disturbi.
Le donne risentono maggiormente di questi problemi perché gli ormoni estrogeni diminuiscono a loro volta il tono venoso, per cui la comparsa di disturbi è frequente nelle diverse fasi del ciclo mestruale o in caso di assunzione di alcune tipologie di terapia ormonale o contraccettiva.

Quali sono i rimedi per le gambe pesanti e doloranti?

Le sostanze venoattive o flebotoniche sono un gruppo eterogeneo di molecole che hanno una azione importantissima sul sistema venoso e sul microcircolo.
Queste sostanze hanno un’origine per lo più vegetale, infatti sono state largamente usate in passato come erbe medicinali e oggi vengono estratte dalle piante o in parte sintetizzate, quindi è possibile trovarle in alcuni alimenti ma più spesso si assumono sotto forma di integratori.

Le sostanze venoattive, tralasciando la loro classificazione che potrebbe risultare noiosa, hanno numerosi effetti positivi in comune.
Per prima cosa aumentano il tono venoso, cioè agiscono sulla parete delle vene migliorandone la contrazione e favorendo quindi il drenaggio di sangue.
Hanno anche una potente azione antiossidante, cioè proteggono le cellule delle vene e dei capillari dallo stress indotto dal ristagno di sangue e dallo stravaso di liquidi, e per questo sono state studiate anche nelle neoplasie.
Agiscono contrastando l’infiammazione, che si attiva a causa del ristagno di sangue proprio per l’attivazione di cellule come i leucociti e i monociti/macrofagi, che con il tempo si rendono responsabili dei danni nei tessuti extra-vasali.
Inoltre, riducono la permeabilità dei capillari e quindi contrastano il gonfiore e l’edema che possono svilupparsi a causa della stasi di sangue, e regolano la densità del sangue stesso evitando l’aggregazione tra le sue cellule il che favorirebbe l’attivazione infiammatoria e della coagulazione.

Cosa sono i flavonoidi?

gambe pesanti e doloranti

L’elenco delle sostanze venoattive è molto lungo, ma in questa sede ci soffermeremo sui flavonoidi ed in particolare sulla frazione flavonoide.

I flavonoidi sono dei metaboliti delle piante che appartengono alla famiglia dei polifenoli; generalmente costituiscono i pigmenti delle piante stesse e si trovano soprattutto nei loro frutti e nelle foglie, ma a volte anche nelle radici come nel caso del Ruscus.
Tra i flavonoidi ricordiamo due categorie di sostanze molto attive sulle vene e sui capillari, ma che condividono anche le proprietà antiossidanti che abbiamo visto nelle sostanze venoattive: gli antociani e le proantocianidine.

Gli antociani sono responsabili dei colori rosso, blu e violetto dei frutti e delle bacche che li contengono, come ad esempio il ribes, la ciliegia, il cavolo rosso, l’uva rossa, la fragola, il sambuco e le bacche in generale L’alimento che contiene più antociani in assoluto è l’aronia, una pianta dalle bacche molto aspre.
Anche le proantocianidine si trovano all’interno di frutti rossi come mirtilli e uva rossa, ma anche nel tè verde e nel cacao.

Una sostanza molto importante appartenente alla categoria dei flavonoidi e largamente utilizzata è la frazione flavonoide (detta anche frazione flavonoide purificata micronizzata o più semplicemente FFPM), un composto semisintetico costituito per il 90% da diosmina e per il 10% da flavonoidi.
La diosmina non è altro che una molecola semisintetica con una potente azione di supporto del sistema venoso, e deriva da un flavonoide naturale, l’esperidina.

Come funziona la frazione flavonoide?

La frazione flavonoide aumenta il tono venoso agendo sui segnali nervosi che regolano la contrazione delle cellule muscolari, situate nella parete delle vene e responsabili della loro capacità propulsiva.
Questo avviene grazie all’aumento che questa sostanza esercita sulla concentrazione di noradrenalina, che è la molecola che stimola la contrazione di queste cellule favorendo così il flusso di sangue.

Gli effetti benefici della frazione flavonoide sono stati indagati da numerosi e vasti studi scientifici, confermati anche da recenti revisioni della letteratura.
Un primo dato interessante è emerso da studi effettuati su una popolazione di soggetti sani con sintomi come pesantezza e dolore alle gambe, associati alla presenza di capillari; come abbiamo già detto si tratta di un problema tipico delle donne, maggiormente soggette a questi disturbi per i fattori ormonali legati al ciclo o alla terapia contraccettiva.

In queste persone, la presenza di capillari visibili era accompagnata anche dal riscontro di reflusso sulla vena grande safena, evidenziato alla fine della giornata lavorativa e tipicamente nel contesto di attività sedentarie o in cui veniva mantenuta la stazione eretta per molte ore.
La presenza di reflusso a fine giornata, pur essendo da considerare un fatto ancora fisiologico, potrebbe evolvere col tempo nello sviluppo di vene varicose superficiali, sovraccaricate dal protrarsi del ristagno di sangue.

La somministrazione di un grammo al giorno di frazione flavonoide per tre mesi ha migliorato nettamente i sintomi, il discomfort e la qualità di vita dei soggetti indagati, e si è anche osservata una scomparsa del reflusso precedentemente osservato.
Questo dato è importante perché mostra che il trattamento con flavonoidi è anche in grado di rallentare l’evoluzione dell’insufficienza venosa, e possono trarne beneficio anche le persone già affette da questa malattia nelle sue diverse fasi.

Naturalmente, l’assunzione di flavonoidi non fa scomparire i capillari, che sono la sede di micro reflussi superficiali e rappresentano uno stadio iniziale dell’insufficienza venosa; in questo caso bisognerà sottoporsi ad un trattamento di scleroterapia per avere il risultato auspicato.

La FFPM ha un altro effetto importante, cioè riduce la permeabilità dei vasi capillari contrastando il gonfiore alle gambe, un’altra conseguenza dell’insufficienza venosa o anche del mantenere per molte ore la posizione eretta.
Infine, la frazione flavonoide accelera anche la guarigione delle ulcere venose, che rappresentano lo stadio più grave dell’insufficienza venosa; questa proprietà è legata all’azione antinfiammatoria della sostanza oltre che di riduzione della permeabilità dei capillari e di miglioramento del flusso sanguigno.

Consigli

In conclusione, raccomando spesso di assumere questa molecola per almeno un mese, ma meglio se per tre mesi, con il dosaggio di un grammo al giorno.
La frazione flavonoide, infatti, si è dimostrata tra le sostanze più efficaci nel ridurre la sensazione di gambe pesanti e doloranti, oltre che migliorare la qualità di vita anche in soggetti sani che soffrono di questa problematica a causa di fattori costituzionali o legati allo stile di vita.
Non ci sono particolari controindicazioni alla sua somministrazione, ma è meglio non assumerlo durante la gravidanza e l’allattamento in quanto non è stata dimostrata la sua sicurezza in queste situazioni.

In caso di gambe pesanti e doloranti, tuttavia, credo sia opportuno effettuare anche una visita specialistica per diagnosticare una eventuale insufficienza venosa e pianificare, in questo caso, il giusto iter terapeutico.

Fonti

https://www.minervamedica.it/it/getfreepdf/DPtk5U3LFEImWyO0DnXZ%252BZlmkqp6b%252FX2OsmDZ%252BaUPELwx9hLcWYXyGSCMjffJ9s%252FCfxuDq%252BoWObQgJspWBo75w%253D%253D/R34Y2017N02A0189.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7004432/pdf/12325_2019_Article_1218.pdf

https://www.minervamedica.it/it/getfreepdf/62rK2LeaZadmZhf8lMJPNc5mCHoOlHcsY5Eip5EDZ8FMo6opInlSIXIpSHbtUaJ60L47poeHhRkpDysYV00cAw%253D%253D/R34Y2018N02A0143.pdf

http://www.sicve.it/wp-content/uploads/2016/10/Flebologia-LG-SICVE-SIF.pdf

gambe gonfie e doloranti

Come risolvere il problema delle gambe gonfie e doloranti a fine giornata

Problema

La sensazione di gambe gonfie e doloranti a fine giornata è molto frequente tra i soggetti che svolgono attività lavorativa, e interessa in genere di più le donne in quanto i sintomi sono aggravati dall’azione degli ormoni estrogeni.
Si tratta di un problema che colpisce le persone che stanno per molte ore ferme in piedi oppure sedute alla scrivania, e spesso il senso di pesantezza alle gambe accompagna i disturbi.

Inoltre, con i primi caldi primaverili questi sintomi peggiorano immancabilmente, e per molte donne inizia l’incubo della ricerca di rimedi efficaci.

Ma perché questi disturbi sono così difficili da controllare?
Direi che una delle risposte è che spesso ciò che potrebbe funzionare non piace o risulta fastidioso da utilizzare; mi riferisco alla calza elastocompressiva, e di seguito vedremo come possiamo sfruttarne alcune tipologie per stare meglio.

Gambe gonfie e doloranti: perché?

Il gonfiore e il senso di pesantezza dipendono dal ristagno di sangue nelle gambe e nelle caviglie, a sua volta dovuto alla posizione eretta o seduta mantenuta per molto tempo.
Questo può accadere anche in persone che hanno delle vene sane, soprattutto in presenza di aumento della temperatura esterna che provoca una ulteriore diminuzione del tono venoso aggravando la situazione.

Perché il sangue ristagna? A livello delle gambe, per poter tornare al cuore e proseguire il suo flusso, il sangue deve fluire contro gravità. Affinché questo accada, deve innescarsi il meccanismo di “pompa” dei muscoli del polpaccio, che spremono le vene facendo scorrere il sangue mentre camminiamo.

Il mantenimento prolungato della posizione eretta o seduta impedisce lo scarico di sangue, che di conseguenza ristagna facendo aumentare la pressione idrostatica all’interno dei vasi capillari. Se per di più fa caldo, le vene spingono di meno perché devono anche provvedere allo smaltimento del calore.
Il risultato è una fuoriuscita temporanea di liquidi nei tessuti che crea il gonfiore a fine giornata; questo accumulo di liquidi è naturalmente transitorio negli individui sani, e regredisce prontamente con il riposo o con l’elevazione delle gambe.
Si tratta del cosiddetto edema occupazionale.

Edema e gonfiore sono la stessa cosa?

L’edema è l’accumulo di liquido nello spazio extracellulare e si manifesta tipicamente con il segno della “fovea”: quando premiamo con un dito la cute della gamba per alcuni secondi rimane un’impronta che regredisce lentamente.
L’edema è causato da diverse malattie che, attraverso alcuni meccanismi, portano all’accumulo di liquidi; tra queste ricordiamo l’insufficienza renale, lo scompenso cardiaco e l’insufficienza venosa e linfatica. Per approfondire i meccanismi alla base dell’edema puoi dare un’occhiata qui.

Ci sono altre situazioni cliniche caratterizzate da edema, come la cellulite e il lipoedema, ma in questo caso la fovea è di solito assente perché siamo in presenza di un edema con caratteristiche diverse, maggiormente “duro” e associato ad alterazioni del tessuto adiposo.

Con il termine “gonfiore” indichiamo, invece, un aumento volumetrico dell’arto, reale o spesso solo percepito, che può essere causato da edema oppure da traumi, punture di insetto, infiammazione e molte altre situazioni, nelle quali peraltro può esserci un edema localizzato.
Generalmente in presenza di gambe gonfie e doloranti a fine giornata non vediamo il segno della fovea, perché l’accumulo di liquidi è talmente transitorio da non renderlo evidente. Come dimostrato da alcuni studi, tuttavia, si verifica un effettivo aumento volumetrico dell’arto.

Come funzionano le calze elastiche

gambe gonfie e doloranti

Le calze elastocompressive sono dei tutori che esercitano sull’arto una pressione esterna, che controbilancia in parte la pressione esercitata dal sangue in stazione eretta. La pressione del sangue, secondo la forza di gravità, è massima nelle parti più declivi della gamba e decresce verso l’alto.

Le calze elastocompressive, grazie al materiale elastico di cui sono composte, aiutano la pompa muscolare a svuotare il sangue ma agiscono anche a riposo, riducendo il diametro delle vene e favorendo in questo modo sia il flusso di sangue che il corretto funzionamento delle valvole.
Grazie a questi effetti, le calze aiutano a prevenire le trombosi e contrastano gli effetti dell’insufficienza venosa.

Quali sono i diversi tipi di calze elastiche? Ce ne sono molti, ma in questo articolo ci focalizzeremo su una prima distinzione tra calze a compressione graduata e calze a compressione progressiva.

Le calze a compressione graduata (GECS in inglese) esercitano una pressione massima alla caviglia e decrescente dal basso verso l’alto, in accordo con il principio secondo cui la pressione del sangue, in posizione eretta, è più alta nelle parti declivi.
Le GECS sono notoriamente difficili da indossare, anche se hanno solitamente dei dispositivi adiuvanti di serie per farle scorrere meglio. Inoltre, spesso sono mal tollerate da chi le indossa, ma è anche vero che molte volte sono prescritte erroneamente.

Un esempio di calza a compressione graduata è rappresentato dalle calze elastiche terapeutiche (CET), tutori certificati come aventi azione terapeutica e largamente usati nelle persone con problemi venosi.

Le calze a compressione progressiva (PECS in inglese), invece, esercitano una pressione massima al polpaccio e minore alla caviglia, con un gradiente pressorio che di conseguenza è invertito.
Il concetto alla base di questi dispositivi è che il polpaccio è la sede di maggior raccolta di sangue nella gamba, ed è anche il motore che lo pompa verso il cuore; pertanto, questi tutori esercitano una azione maggiormente focalizzata sulla pompa muscolare.

Le PECS sono più facili da indossare e generalmente più confortevoli soprattutto per praticare sport, ma il rischio è che, essendo invertito il gradiente pressorio, favoriscano uno svuotamento minore alle caviglie rispetto al resto della gamba.

Calze elastocompressive nell’edema occupazionale

Quale delle due calze è più appropriata per chi soffre di gambe gonfie e doloranti a fine giornata?
La questione è stata indagata da alcuni studi scientifici recenti.

In merito al problema delle gambe gonfie e doloranti a fine giornata, uno studio italo-austriaco del 2013 ha indagato soggetti sani che svolgevano attività lavorativa in stazione eretta prolungata o seduta. Il risultato è stato che, al termine della giornata lavorativa, le PECS si sono mostrate più efficaci delle GECS nel ridurre l’edema inteso come volume totale della gamba.

Le gambe si sono sgonfiate di più, ma in modo omogeneo?
Un trial successivo ha risposto alla domanda, mostrato innanzitutto che entrambe le tipologie di calza riducono in misura simile ed efficace il volume della gamba, sia in soggetti sani che affetti da insufficienza venosa.

Per quanto riguarda il volume della parte distale della gamba/piede, tuttavia, le GECS sono state più efficaci in entrambe le categorie di persone, determinando quindi una riduzione omogenea del gonfiore senza incorrere nel rischio di congestione della caviglia.

Commenti e consigli

In presenza di edema occupazionale in soggetti sani, l’uso di una calza elastica adeguata è fondamentale. Naturalmente siamo poco abituati ad indossarla soprattutto con i primi caldi, perché sappiamo che può essere difficile da indossare e che provoca sudorazione, costrizione e secchezza della pelle.

Ciononostante, la calza elastocompressiva è un ausilio fondamentale per eliminare certi disturbi, e ciascuna delle due categorie ha dei pro e dei contro che possiamo riassumere per orientare la scelta.
Per ora ci riferiremo a soggetti sani senza insufficienza venosa.

Calze a compressione graduata

Rientrano in questa categoria tutte le calze certificate come terapeutiche, che vengono consigliate nelle persone con insufficienza venosa sulla base delle linee guida ma che possono essere impiegate anche nei soggetti sani con sintomi quali dolore e pesantezza.
Ricordo che possono avere diverse intensità di compressione, si parte dalla prima classe fino ad arrivare alla terza o quarta; nei soggetti sani sarà sufficiente una prima classe.

Vantaggi – sono più efficaci in termini di riduzione di dolore e pesantezza alle gambe e funzionano nell’evitare l’edema a fine giornata, e soprattutto riducono il volume dell’arto in maniera omogenea senza rischio di congestione alle caviglie.
Svantaggi – sono più difficili da indossare e possono creare costrizione sul lato dorsale della caviglia.

Le consiglierei come prima scelta in chi ha particolare dolore e pesantezza ed è disposto a tollerare la difficoltà di indossarle.

Calze a compressione progressiva

Vantaggi – altrettanto o addirittura più efficaci nella riduzione dell’edema a fine giornata, sono più facili da indossare e tendenzialmente meno fastidiose da portare; inoltre, massimizzano la funzione di pompa del polpaccio e sono più efficaci nell’aumentare l’eiezione di sangue dalla gamba.
Svantaggi – rischiano di svuotare maggiormente il polpaccio rispetto alla caviglia con conseguente congestione della stessa; inoltre, tenderebbero a scivolare di più verso il basso.

Possono essere impiegate da chi desidera un miglioramento ed è particolarmente esigente in fatto di comfort, ricordando però il problema della possibile disparità nella distribuzione del gonfiore residuo.
Sono consigliate alle persone con particolari cause di insufficienza venosa, nelle quali è utile massimizzare la funzione di pompa muscolare del polpaccio.

Un ultimo dato interessante è stato ottenuto da uno studio inglese nel 2016, che ha documentato come la calza elastica a compressione graduata sia stata più efficace dell’elettrostimolazione nel ridurre il gonfiore a fine giornata, sempre nei soggetti con edema occupazionale.

Fonti

https://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/0268355516682885

https://www.ejves.com/action/showPdf?pii=S1078-5884%2813%2900076-2

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4870057/pdf/10-1055-s-0035-1558646.pdf