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Vene varicose: camminare fa davvero bene alla circolazione?

Vene varicose: è vero che camminare fa bene?

Una convinzione comune sui problemi di circolazione alle gambe è che camminare fa bene se si hanno le vene varicose.
Molte pazienti pensano, ad esempio, che non siano necessarie misure preventive come la calza elastica proprio perché camminano frequentemente.
Non c’è dubbio che fare delle passeggiate quotidiane sia molto utile per la salute.
Si tratta di un’ottima abitudine perché attiva il metabolismo, allena il sistema cardiovascolare, riduce lo stress e addirittura ci protegge dall’insorgenza di tumori e malattie degenerative.

vene varicose gamba sinistra

un esempio di vena varicosa

Quando ci sono le vene varicose non è esattamente corretto dire che camminare fa bene: Perché?

Per dare una risposta dobbiamo prima comprendere come si formano le vene varicose.

Le vene varicose indicano la presenza di insufficienza venosa.
L’insufficienza venosa è una malattia multifattoriale, cioè con molteplici cause, che porta a una perdita di funzionamento delle vene.
In presenza di insufficienza venosa le vene perdono la loro capacità di drenare il sangue dai tessuti e spingerlo verso il cuore.
Di conseguenza, il sangue ristagna nelle gambe e provoca tutta una serie di disturbi legati allo stato infiammatorio che si crea.

Le cause dell’insufficienza venosa sono sicuramente di tipo genetico, ma ci sono anche fattori esterni che possono contribuire.
L’elemento più importante è l’azione degli ormoni sessuali femminili, che riducono il tono venoso favorendo la dilatazione delle vene e il ristagno di sangue.
Per questo le gravidanze, le terapie ormonali e la menopausa si associano spesso a comparsa o peggioramento di capillari e vene varicose.
Altri fattori importanti sono l’obesità, le attività lavorative dove si sta in piedi molte ore, e l’esposizione a fonti di calore.
Tutte queste situazioni aumentano nettamente la probabilità che compaiano vene varicose o che peggiorino quelle già esistenti.

Ma come si sviluppano le vene varicose?

Abbiamo visto che partono da un difetto genetico e che sono influenzate negativamente dagli ormoni, ma è necessario un altro fattore affinché si formino.

Questo fattore è il movimento del sangue. Nelle vene normali il sangue viene spinto verso l’alto dalla contrazione dei muscoli del polpaccio e della pianta del piede.

Alcune strutture particolari situate all’interno delle vene, chiamate valvole, impediscono al sangue di scendere verso il basso.
Le valvole si aprono proprio quando il muscolo cessa di contrarsi e il sangue tenderebbe a tornare verso terra a causa della forza di gravità.

Nell’individuo normale, quindi, camminare fa bene alle vene e alla circolazione perché spinge il sangue verso l’alto evitando che ristagni e provochi fastidi.

Questo avviene grazie al corretto funzionamento delle valvole. In presenza di insufficienza venosa, però, le valvole sono difettose.
Dopo la contrazione muscolare, quindi, il sangue non viene più bloccato ma scende verso il basso.

Questo flusso patologico si chiama reflusso ed è determinato dalla forza di gravità.
Il reflusso del sangue è patologico non solo perché ha una direzione sbagliata, ma anche perché è un flusso turbolento. Un flusso turbolento, al contrario di quello normale, è un flusso caotico di sangue che esercita una pressione eccessiva. Le vene, che sono a tutti gli effetti dei tubi distendibili, subiscono questo reflusso a livello delle loro pareti e cominciano a dilatarsi.

Adesso abbiamo capito che le vene varicose si sviluppano nella persona che cammina, ma non si svilupperanno mai in una persona che non muove le gambe, come ad esempio chi è paralizzato a seguito di un incidente.

 

Ma allora se le vene varicose si sviluppano in una persona che cammina, camminare fa bene?

 

Cominciamo a capire che in realtà non è così, ma dobbiamo fare alcune precisazioni sui circuiti patologici che formano le vene.

I reflussi nelle vene varicose formano dei circuiti patologici di sangue. All’interno di questi circuiti, il sangue va dall’alto verso il basso e dalla profondità alla superficie, quindi in direzione contraria rispetto a quella che normalmente dovrebbe esserci.

I circuiti sono formati da vene di tre tipi:

  1. Vene profonde: situate dentro i muscoli.
  2. Vene superficiali: sotto la cute.
  3. Vene safene: tra le vene profonde e superficiali.

Questi circuiti possono essere chiusi o aperti.

I circuiti chiusi si formano quando il sangue dalle vene profonde refluisce su quelle di superficie (o sulle safene) e alla fine rientra nelle vene profonde. Si definiscono chiusi proprio perché il sangue parte da una vena profonda (ad esempio a livello dell’inguine), scende verso il basso lungo la safena o una vena di superficie e rientra nelle vene profonde sotto il ginocchio. Da qui viene nuovamente spinto verso l’alto dalla contrazione muscolare, ma torna inevitabilmente nel punto dove refluirà di nuovo.

I circuiti aperti, invece, presentano reflusso di sangue ma senza che questo torni nel punto da dove è partito. Per fare un esempio, in un tipico circuito aperto ci sarà un reflusso dalla safena alle vene varicose di superficie, ma il sangue in profondità andrà comunque nella direzione giusta.

Ormai abbiamo capito che nelle persone che hanno vene varicose, quindi reflusso di sangue, con circuiti chiusi camminare non fa bene.
Questo perché più camminano, più favoriscono la circolazione all’interno di questo circuito “malato” e più lo alimentano nel tempo.

Nel circuito aperto, invece, camminare non è sfavorevole.

Ma allora queste persone devono stare ferme tutto il giorno?

Assolutamente no!

 

Devono però portare la calza elastica mentre camminano, se non altro fino a quando si sottoporranno a un piccolo intervento che servirà ad aggiustare il circuito

Perché la calza elastica?

La calza elastica è un dispositivo medico che esercita una pressione esterna sulle vene e sui tessuti.

Questa pressione contrasta l’eccessiva pressione venosa che c’è all’interno delle varici e che è diretta verso l’esterno. In questo modo, l’uso della calza permette di ridurre il reflusso, aiuta le vene a drenare meglio il sangue e combatte l’infiammazione dei tessuti. In un circuito chiuso, l’uso della calza consente di camminare favorendo comunque il movimento del sangue verso l’alto.

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calza elastica

Ma come faccio a sapere se nel mio caso il circuito è chiuso o aperto?


Semplice, basterà fare una visita dallo specialista giusto, che grazie a un ecodoppler eseguito correttamente potrà capire di che circuito si tratta e pianificare il trattamento più adatto.

 

 

 

 

 

 

Le vene visibili sulle gambe sono un inestetismo che crea imbarazzo nell'indossare una gonna o un vestito corto. Ecco come si possono eliminare.

Vene visibili sulle gambe: cosa sono e come si eliminano efficacemente

La presenza di vene visibili sulle gambe è uno degli inestetismi maggiormente sentiti dalle donne. Il motivo della sua importanza è che provoca un forte imbarazzo nello scoprire le gambe.
Nelle persone affette, infatti, indossare una gonna o un vestito corto diventano causa di disagio e scarsa accettazione del proprio corpo.

Le vene visibili sulle gambe sono l’espressione di una patologia cronica e degenerativa, l’insufficienza venosa. Questo significa che con il tempo tendono a dilatarsi progressivamente e ad aumentare di numero.
Nonostante si tratti di un problema così diffuso, però, il trattamento delle vene visibili sulle gambe è problematico.

Come mai?

La risposta è che le terapie possono essere dannose se non sono conosciute adeguatamente ed effettuate con cautela. Infatti, per migliorare la situazione estetica delle gambe bisogna fare attenzione a non creare altri inestetismi.

Proprio per questo alcune pazienti hanno poca fiducia nel trattamento. Le convinzioni più diffuse sono che “chiusa una vena ne spunta poi un’altra” e che “dopo il trattamento la situazione spesso peggiora”.

Sono vere queste convinzioni? Ci sono dei metodi efficaci per eliminare le vene visibili sulle gambe?

In questo articolo cercherò di rispondere nel modo più esauriente possibile. L’obiettivo è di darti tutte le informazioni necessarie per prendere una decisione sul trattamento dei tuoi inestetismi.

Vene visibili sulle gambe: cosa sono?

Le vene visibili sulle gambe sono delle vene particolarmente inestetiche che compaiono a livello degli arti inferiori. Si tratta di vasi sanguigni di colore blu scuro, più o meno dilatati e con decorso tortuoso. Proprio per queste loro caratteristiche saltano all’occhio e compromettono l’estetica delle gambe.

Dobbiamo ricordare, però, che avere delle vene visibili sulle gambe non sempre è patologico.
Vediamo allora quando la situazione è normale e quando invece è il caso di preoccuparsi e attivarsi per un trattamento.

Vene visibili sulle gambe: quando sono normali

Le vene sono dei vasi sanguigni che portano il sangue dai tessuti periferici al cuore. Il loro colore blu è del tutto fisiologico, perché il sangue che trasportano contiene poco ossigeno. Infatti, esse raccolgono le sostanze di scarto che provengono dai processi metabolici dei tessuti.

Le vene si formano nel circolo capillare sottocutaneo e diventano man mano più grosse confluendo tra di loro. Ne consegue che osservare in trasparenza delle vene visibili sulle gambe può essere del tutto normale, soprattutto in soggetti con la pelle chiara.

Quali caratteristiche hanno queste vene normali?
Sono appena visibili, hanno un colore blu-verde e non sono dilatate. Formano un reticolo appena percettibile sotto la cute della coscia e della gamba.
Si tratta di normali vie di drenaggio che solitamente non bisogna trattare.

Qualora venissero chiuse in maniera troppo aggressiva, infatti, la situazione potrebbe addirittura peggiorare. In questo caso spunterebbero in breve tempo dei capillari particolarmente sottili e inestetici, che prendono il nome di matting.

Lo strumento che toglie ogni dubbio sulla natura delle vene visibili sulle gambe è l’ecodoppler. In caso di normalità osserveremo un flusso di sangue diretto dal basso verso l’alto e dalla superficie alla profondità.

 

L'esame migliore per studiare le vene visibili sulle gambe è l'ecodoppler

L’esame di scelta per studiare le vene visibili sulle gambe è l’ecodoppler, che va eseguito in stazione eretta

 

Vene visibili sulle gambe: quando sono patologiche

Se le vene visibili sulle gambe diventano particolarmente scure, oppure si ingrossano e sporgono sulla cute, allora probabilmente sono patologiche.

A volte sono anche dolenti, soprattutto in alcune fasi del ciclo mestruale. Ancora, possono dare la sensazione di “scoppiare” improvvisamente, soprattutto nella stagione estiva.
Se invece assumono l’aspetto di un cordoncino duro e arrossato, allora il problema potrebbe essere una trombosi venosa superficiale.

Quando le vene visibili sulle gambe assumono queste caratteristiche siamo di fronte ad un problema estetico e vascolare ben preciso: si tratta delle cosiddette vene reticolari.

Vene visibili sulle gambe: caratteristiche

Cosa sono queste vene reticolari?
Il parametro che le definisce è la loro dimensione. Esse, infatti, non superano i 3 millimetri di diametro (per la precisione il loro diametro è compreso tra 1 e 3 millimetri). Quando invece superano i 3 millimetri si parla di vene varicose.

Le vene reticolari si trovano appena sotto il derma, quindi nel tessuto sottocutaneo superficiale. Sono generalmente piatte anche se a volte possono sporgere sulla cute. Questa sporgenza si osserva soprattutto nel cavo popliteo (la parte dietro il ginocchio).

 

Le vene reticolari compaiono negli stadi iniziali dell'insufficienza venosa

Le vene reticolari sono bluastre, non rilevate e spesso tortuose

 

In termini di frequenza, le vene reticolari compaiono più spesso nelle donne. Possono spuntare abbastanza rapidamente dopo una gravidanza o in seguito a una terapia ormonale, ma anche con l’avanzare dell’età. In alcune popolazioni si riscontrano addirittura nel 60% dei soggetti.
Si tratta, quindi, di un fenomeno piuttosto diffuso.

Spesso le vene reticolari si osservano in prossimità di altri piccoli vasi, più sottili e di colore rosso o violaceo. Si tratta dei ben noti capillari sulle gambe.

Vene reticolari e capillari possono assumere diverse configurazioni intersecandosi tra di loro. Saper riconoscere e distinguere queste strutture è importante, perché l’approccio terapeutico cambia.
Capiremo meglio questo concetto nel prossimo paragrafo.

Vene visibili sulle gambe: tipologie

Perché si formano le vene reticolari?
I motivi sono due: un flusso di sangue ostacolato oppure un flusso invertito. Vediamo in cosa consistono questi due fenomeni.

Flusso ostacolato

Come abbiamo detto, il normale flusso del sangue (chiamato anche deflusso) avviene dal basso verso l’alto e dalla superficie alla profondità. Ciò è reso possibile dalla presenza di piccole valvole all’interno delle vene. Le valvole impediscono al sangue di tornare indietro, cosa che naturalmente avverrebbe poiché esso scorre contro gravità.

Quando questo normale flusso è ostacolato, per i motivi che vedremo fra poco, la vena si dilata a causa della congestione che si crea al suo interno. A questo punto si forma la vena reticolare.

In queste situazioni la forma che i capillari assumono rispetto alla vena reticolare diventa simile a quella di un albero. Infatti, sembrerà di osservare un tronco (la vena reticolare) con i rami (i capillari) disposti attorno ad esso. Questa conformazione prende proprio il nome di “pino marittimo” oppure di “albero dritto”.

 

Le vene visibili sulle gambe possono assumere, assieme ai capillari, una forma ad albero

Un esempio di configurazione “a pino marittimo”

 

In presenza di un “albero dritto” bisogna fare molta attenzione nel trattare la vena reticolare.
Anche se il flusso è ostacolato, infatti, questa vena è pur sempre una via di drenaggio funzionante. La sua chiusura, quindi, causerebbe un ulteriore impedimento alla circolazione del sangue con lo spiacevole risultato di veder spuntare nuovi capillari.

Ecco spiegato il perché a volte si peggiora rapidamente dopo il trattamento.

Flusso invertito

Se il flusso di sangue non va nella direzione fisiologica significa che le valvole all’interno delle vene reticolari non stanno funzionando. Si parla in questo caso di reflusso. Il sangue dalla profondità arriva al compartimento superficiale e le vene reticolari diventano visibili.

In questi casi la conformazione che osserviamo è solitamente quella di un “albero rovesciato”. I capillari, infatti, si trovano sotto la vena reticolare, proprio come se l’albero fosse capovolto.

Poiché il flusso di sangue è invertito, in questo caso è la vena reticolare che alimenta la dilatazione dei capillari. Chiudendo la vena, quindi, è lecito aspettarsi anche una scomparsa dei capillari.

Vene visibili sulle gambe: cause

Abbiamo visto le due principali tipologie di vene visibili sulle gambe. Ma quali sono le cause che ne provocano la comparsa?
Vediamone alcune.

Cellulite

La cellulite è un problema ben noto alle donne perché causa vistose alterazioni del tessuto adiposo e della cute. Quest’ultima, ad esempio, assume il tipico aspetto “a buccia d’arancia” o “a materasso”.

 

La cellulite si associa a cattiva circolazione e spesso alla comparsa di vene visibili sulle gambe

La cellulite si associa alla presenza di cute “a buccia d’arancia” o “a materasso”

 

La cellulite, però, non è propriamente un accumulo di grasso né un semplice inestetismo.
Si tratta, infatti, di una vera e propria patologia degenerativa dei tessuti sottocutanei. Essa inizia con un accumulo di liquidi nel tessuto adiposo ed evolve verso la fibrosi attraverso un processo infiammatorio.
Per questo motivo viene definita con l’acronimo PEFS (pannicolopatia edemato-fibro-sclerotica).

Cosa c’entra la cellulite con le vene visibili sulle gambe?
Le alterazioni che caratterizzano la cellulite provocano un danno alla circolazione. A causa delle modificazioni indotte dalla malattia, infatti, il flusso di sangue dalla superficie alla profondità è ostacolato e le vene reticolari diventano visibili.

In queste situazioni osserveremo più spesso una conformazione “ad albero dritto”, tipicamente sul lato esterno della coscia (un’area particolarmente colpita dalla cellulite).

Anomalie posturali

La postura è molto importante per la circolazione del sangue. In presenza adi anomalie posturali gli angoli tra le articolazioni sono alterati e il sangue fa fatica a defluire. Il risultato è che le vene tenderanno a dilatarsi a monte dell’ostacolo, diventando visibili.

Qualche esempio?
Le sedi più colpite da questo problema sono la caviglia e il ginocchio.

Nel primo caso si osserva tipicamente una corona di capillari attorno al malleolo mediale (l’osso che sporge sulla parte interna della caviglia). Spesso il problema si associa a pronazione del piede ed errato appoggio plantare.

Nel caso delle ginocchia, riscontriamo tipicamente una tendenza all’iperestensione con formazione di vene visibili sulle gambe nel cavo popliteo.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un deflusso ostacolato.

Insufficienza venosa

Questa malattia degenerativa colpisce fino al 30% della popolazione femminile. Essa si manifesta con la perdita della funzione drenante delle vene, che si dilatano e diventano visibili. Si formano così le vene varicose.

Nel suo stadio iniziale l’insufficienza venosa si caratterizza proprio per la presenza di vene reticolari. All’interno di queste vene le valvole non funzionano e il sangue tende quindi a refluire, facendo comparire spesso anche i capillari.

In queste situazioni osserveremo più spesso delle disposizioni “ad albero rovesciato”, soprattutto nelle parti più declivi delle gambe. Per gravità, infatti, il sangue tende ad accumularsi verso il basso.

Terapia ormonale

Gli ormoni sessuali femminili sono noti per ridurre l’attività propulsiva delle vene favorendone la dilatazione. Questo è il motivo per cui le donne sono più soggette a questo problema.

L’assunzione di contraccettivi orali e le terapie ormonali in corso di menopausa o fecondazione assistita potenziano gli effetti negativi sulle vene. In questi casi aumenta la probabilità che esse si dilatino e si rendano visibili, con o senza sintomi associati.

Fattori ambientali

Anche alcuni stili di vita possono influire sulla circolazione.
Il problema principale è la stazione eretta prolungata, perché riduce l’azione di pompa che i muscoli del polpaccio esercitano sulle vene.

Per questo motivo le vene visibili sulle gambe sono più facilmente presenti in persone che lavorano molto in piedi. I casi tipici sono parrucchiere, bariste, oppure donne che lavorano nell’ambito delle pulizie.

Anche stare seduti per molte ore provoca lo stesso problema. Tutte le persone che svolgono mansioni d’ufficio, quindi, sono potenzialmente soggette a cattiva circolazione.

 

Passare molte ore in ufficio può provocare problemi di circolazione.

Il lavoro d’ufficio si associa spesso a cattiva circolazione

 

Se oltre ai fattori visti finora aggiungiamo l’esposizione a fonti di calore, il problema peggiora ulteriormente. Ecco che i soggetti più a rischio diventano cuochi e operai che lavorano in fabbriche dove ci sono alte temperature.

Vene visibili sulle gambe: perché trattarle?

La principale indicazione al trattamento delle vene visibili sulle gambe è di tipo estetico.

Trattandosi di una patologia degenerativa, però, anche l’aspetto preventivo ha la sua importanza. Queste vene, infatti, tenderanno per natura a peggiorare diventando più visibili e potenzialmente anche fastidiose.
Secondo alcuni autori, inoltre, il trattamento serve anche ad alleggerire il circolo superficiale e a migliorare l’emodinamica venosa.

Quali sono i passi da seguire per il trattamento?
Prima di tutto è necessario sottoporsi ad una visita specialistica con ecodoppler. La valutazione deve confermare che all’interno di queste vene c’è un reflusso, escludendo che si tratti di vasi normalmente funzionanti.

Inoltre, è fondamentale studiare interamente la circolazione per verificare che non ci siano problemi più grossi, ad esempio a livello della vena safena.

Solo a questo punto si potrà iniziare il trattamento, dopo aver valutato i pro e i contro e deciso la strategia più adatta.

Vene visibili sulle gambe: come trattarle?

Il trattamento delle vene reticolari può essere effettuato principalmente in due modi: scleroterapia e laser.
Ciascuno di questi trattamenti ha dei pro e dei contro. Ogni caso, quindi, va valutato a sé. Spesso, inoltre, essi vengono associati tra di loro.

Ciò che è importante capire e che non c’è una terapia che in assoluto è meglio di un’altra.

Spesso le pazienti chiedono un trattamento specifico perché non hanno avuto un buon risultato con l’altro. L’approccio corretto, però, sarebbe quello di valutare il caso e capire perché il trattamento effettuato non è andato bene. Magari era stato correttamente indicato ma eseguito in modo sbagliato.

Quando decidiamo di trattare le vene visibili sulle gambe bisogna anche e soprattutto valutare alcuni parametri, come il diametro della vena, la sua eventuale sporgenza sulla cute, il colore, la profondità e le eventuali controindicazioni alle terapie.

Vediamo ora nel dettaglio i pro e contro dei trattamenti.

Scleroterapia

La scleroterapia consiste nell’iniezione di un farmaco all’interno delle vene reticolari con lo scopo, appunto, di “sclerotizzarle”. Ciò provoca una risposta infiammatoria e successivamente una fibrosi a livello della vena trattata. Il risultato è la progressiva scomparsa dell’inestetismo.

I farmaci sclerosanti si dividono in vari gruppi.
Quelli più comunemente usati sono i detergenti (ad esempio il Polidocanolo e il Sodio Tetradecil Solfato) e gli irritanti chimici (la Glicerina Cromata). Essi possono essere utilizzati in forma liquida oppure schiumosa, e in diverse concentrazioni.

Questi parametri determinano l’intensità dell’azione sclerosante e vanno quindi adattati alle caratteristiche del vaso che volgiamo trattare.

 

La seduta di scleroterapia dei capillari non è dolorosa

Scleroterapia con schiuma sclerosante

Come si può intuire, la scleroterapia non è un trattamento banale perché ci sono tante variabili da considerare. Si tratta indubbiamente di una terapia vantaggiosa ma possono esserci anche dei potenziali problemi.
Cerchiamo di capire quando va bene e quando no.

Vantaggi

I vantaggi della scleroterapia sono molti.
Si tratta di un trattamento ambulatoriale, mini-invasivo e ripetibile a distanza di 3-4 settimane dalla precedente seduta. La paziente può tornare subito alle proprie attività dopo il trattamento, basterà evitare l’esposizione al sole e indossare una calza elastica.
I suoi costi, oltretutto, sono relativamente contenuti.

Inoltre, si tratta di una terapia non dolorosa. Al massimo si può sentire qualche minimo fastidio nella sede di puntura. Non è necessaria l’anestesia perché il trattamento è ben tollerato.

Per quanto riguarda le vene visibili sulle gambe, la scleroterapia è generalmente considerata il trattamento di scelta. Essendo vasi più grossi rispetto ai capillari, infatti, è più semplice pungerli che bruciarli dall’esterno, come avverrebbe nel caso del laser (lo vedremo più avanti).

Ci sono tuttavia da considerare anche alcuni potenziali rischi.

Svantaggi

Come abbiamo detto, nella scleroterapia l’infiammazione è necessaria per ottenere l’effetto desiderato. A volte, però, troppa infiammazione può rivelarsi uno svantaggio.

Perché?

Se una vena reticolare viene infiammata eccessivamente aumenta il rischio che compaiano delle macchie sulla pelle. Ciò è dovuto alla deposizione di sostanze liberate dal processo infiammatorio, che pigmentano la cute. Questo è vero soprattutto in zone delicate come il cavo popliteo e la caviglia, dove c’è meno tessuto sottocutaneo.

 

Macchie di pigmentazione dopo scleroterapia

Macchie di pigmentazione dopo scleroterapia

 

Questa complicanza può avvenire a causa di fattori individuali ma soprattutto quando si usano sclerosanti troppo potenti.

Le vene reticolari, peraltro, hanno una parete più grossa rispetto ai capillari. Questo significa che bisogna in linea teorica infiammarle di più per chiuderle e farle sparire.

Come possiamo notare, non è facile bilanciare la giusta infiammazione con il risultato desiderato. Per questo bisogna intervenire con più sedute di scleroterapia, partendo con concentrazioni molto basse per poi salire pian piano.

Quali sono gli altri svantaggi della scleroterapia?
Bisogna tenere presente possibili complicazioni, seppur rare. Si tratta di reazioni allergiche, necrosi, trombosi venose superficiali, ma anche comparsa di una fitta rete di capillari molto sottili (matting) in conseguenza di una infiammazione eccessiva o di un trattamento improprio.

Queste complicazioni, però, sono facilmente evitabili se si raccoglie una storia clinica accurata e si seguono le linee guida principali.

Laser

Il laser sfrutta l’emissione di energia sotto forma di luce per colpire e distruggere un tessuto biologico. L’obiettivo, naturalmente, è la scomparsa dell’inestetismo che vogliamo trattare.

Nel caso delle vene visibili sulle gambe, il bersaglio del laser è l’emoglobina del sangue. Quando essa viene colpita, l’energia termica si propaga fino a distruggere la parete del vaso, che è il vero obiettivo da raggiungere. Solo in questo modo, infatti, si otterrà la scomparsa della vena.

Il parametro più importante che caratterizza un laser è la lunghezza d’onda.
Si tratta di una grandezza specifica della luce che determina quanto in profondità il laser sarà in grado di arrivare e quale tessuto verrà colpito. A seconda dell’inestetismo che vogliamo trattare, quindi, dovremo scegliere una diversa lunghezza d’onda e quindi un diverso laser.

Ma quali sono le caratteristiche ideali che un laser dovrebbe avere per trattare le vene visibili sulle gambe?

Per prima cosa, la lunghezza d’onda dovrebbe essere sufficientemente selettiva per l’emoglobina del sangue. In questo modo l’energia luminosa verrebbe massimamente convertita in calore, surriscaldando il vaso e distruggendolo.

Secondo, il laser dovrebbe arrivare ad una profondità sufficiente per colpire il bersaglio.

Terzo, è importante che i tessuti che circondano il nostro target non vengano danneggiati.

Purtroppo, il laser ideale non esiste. Ognuno ha dei pro e dei contro e non è possibile soddisfare tutte e tre le caratteristiche in modo ottimale.
Vediamo quindi quali sono i laser che possiamo sfruttare per trattare le vene visibili sulle gambe.

NdYAG

Questo laser deve il suo acronimo alle iniziali degli elementi che lo compongono. Esso emette una luce che ha una lunghezza d’onda di 1064 nanometri.

Come funziona?
Il raggio laser fuoriesce da un manipolo esterno, che viene appoggiato sulla pelle. La luce deve quindi attraversare lo strato cutaneo per raggiungere la vena bersaglio e distruggerla.

Quali caratteristiche soddisfa questo laser?
La sua affinità per l’emoglobina del sangue è scarsa, mentre ha una sufficiente azione sulla mioglobina (una sostanza contenuta nella parete delle vene). Quindi, è potenzialmente in grado di distruggere efficacemente il bersaglio.

Anche la profondità che può raggiungere è buona. Può quindi arrivare fino alle vene reticolari, a patto che i parametri vengano impostati in un certo modo.
Tuttavia, non essendo selettivo per l’emoglobina, può danneggiare i tessuti circostanti. Infatti, la sua affinità per l’acqua è più alta rispetto ai laser con lunghezze d’onda minori, e l’acqua è contenuta in tutti i tessuti.

Il laser NdYAG, proprio per le caratteristiche che abbiamo visto, è un trattamento possibile per le vene visibili sulle gambe ma non ottimale. Inoltre, è doloroso e richiede un continuo raffreddamento della cute.

Esso, invece, è molto efficace nel trattamento di capillari particolarmente sottili (inferiori al millimetro), come nel caso del “matting”.
Ha un’ottima indicazione anche nei capillari resistenti alla scleroterapia, nei pazienti che hanno paura degli aghi e nel trattamento di aree particolarmente a rischio di pigmentazione.

Laser endo-perivenoso

Il laser endo-perivenoso ha una lunghezza d’onda di 808 nanometri e si chiama così proprio per le modalità con cui distrugge le vene reticolari. Il suo meccanismo d’azione, infatti, prevede che l’emissione avvenga posizionando la sorgente laser all’interno oppure attorno alla vena.
Capiremo tra poco come funziona questo innovativo trattamento.

Quali criteri soddisfa il laser endo-perivenoso?
La lunghezza d’onda di 808 nanometri è maggiormente assorbita dall’emoglobina rispetto a quanto avviene con il NdYAG. Inoltre, la sua specificità è ottima perché l’affinità per l’acqua è quattro volte inferiore rispetto a quella del suo rivale.
Il laser endo-perivenoso, quindi, non danneggia i tessuti circostanti.

 

Il laser endo-perivenoso disrtrugge le vene visibili sulle gambe

Il laser endo-perivenoso è un diodo con lunghezza d’onda di 808 nanometri

 

Il problema è piuttosto la profondità. Non potendo penetrare a sufficienza, infatti, questo laser non è in grado di raggiungere dall’esterno le vene visibili sulle gambe.

Come viene superato questo ostacolo?

Introducendo una sottile fibra sotto la cute e collegandola alla sorgente laser, sarà possibile avvicinarsi a sufficienza alla vena bersaglio e colpirla. A questo punto, sia che la fibra sia all’interno che attorno al vaso sanguigno, esso verrà distrutto senza intaccare minimamente gli altri tessuti.

Ma come funziona più nel dettaglio questo trattamento?
Vediamolo nello specifico.

Come funziona il laser endo-perivenoso

Per prima cosa di deve marcare la vena bersaglio con una penna rossa (un colore più scuro potrebbe essere assorbito dalla luce laser). Successivamente si effettuano piccole iniezioni di anestetico locale lungo il decorso del vaso.

A questo punto si può introdurre la fibra facendola passare attraverso la cute. Si tratta di uno strumento sottilissimo (0,2-0,3 millimetri di diametro) che non provoca alcun fastidio.

Impostati correttamente i parametri di emissione, la vena reticolare è pronta per essere trattata.

Cosa succede alla vena quando arriva il raggio laser?

Il primo effetto dell’impulso laser è una contrazione della vena reticolare. Ciò avviene perché questa lunghezza d’onda colpisce la mioglobina, una sostanza presente nelle cellule muscolari della parete venosa.
In una frazione di secondo, quindi, la vena si rimpicciolisce.

La contrazione della vena favorisce il secondo effetto del laser, che è anche il principale, ossia la coagulazione del sangue. Questo processo avviene più facilmente se la vena è piccola e se c’è uno scarso volume di sangue da vaporizzare.
Anche la velocità con cui l’operatore muove avanti e indietro la fibra influenza questa fase. Tale velocità dovrebbe essere di circa 3-5 millimetri al secondo con una potenza di circa 6 watt per 0,5-1 secondi.

In sintesi, maggiore è l’entità della coagulazione, più efficacemente la vena viene chiusa e scompare.

Terminato il trattamento sarà sufficiente applicare una crema lenitiva e una piccola medicazione per qualche giorno. Nei punti di ingresso della fibra sulla cute si formeranno delle piccole crosticine, destinate a sparire nell’arco di alcune settimane.

Dopo il trattamento bisogna naturalmente evitare l’esposizione al sole o a lampade abbronzanti, mentre non è necessario indossare la calza elastica.

Vantaggi

Quali sono, alla fine, i vantaggi di questo trattamento?

Il laser endo-perivenoso elimina il problema delle pigmentazioni cutanee che possiamo avere con la scleroterapia. Infatti, il suo meccanismo di distruzione basato sull’energia termica non provoca l’infiammazione e i coaguli che si osservano con gli sclerosanti.
Inoltre, la sua azione è istantanea e generalmente non richiede ulteriori sedute nella stessa zona.

L’altro vantaggio è che si possono trattare facilmente anche le vene reticolari molto tortuose. Non è necessario, infatti, che la fibra si trovi all’interno della vena perché questa venga distrutta. Anche dall’esterno, oppure perforando la vena dall’interno, il laser sarà ugualmente efficace.

 

La fibra laser inserita sotto la cute distrugge le vene visibili sulle gambe

La fibra laser inserita appena sotto la cute distrugge le vene reticolari sia dall’interno che dall’esterno

 

Il terzo vantaggio è che questo laser, come abbiamo visto, non intacca i tessuti circostanti.

Svantaggi

Il laser endo-perivenoso è particolarmente indicato se le vene visibili sulle gambe sono resistenti alla scleroterapia, oppure se c’è un maggior rischio di pigmentazione o se il paziente è allergico allo sclerosante.
Naturalmente, anche il laser può provocare delle complicazioni, ma se i parametri sono impostati correttamente si tratta di eventi eccezionali.

Quali sono gli svantaggi?

La selettività del laser endo-perivenoso per le vene reticolari di colore blu può rivelarsi svantaggiosa se abbiamo bisogno di trattare simultaneamente anche i capillari rossi.

Si tratta, inoltre, di un trattamento un po’ più costoso. Tuttavia, essendo efficace in una singola seduta il suo costo finale è equivalente a quello della scleroterapia, che richiede più sessioni di trattamento.

Conclusioni

Le vene visibili sulle gambe sono un problema estetico rilevante per le donne. Molte persone, pur cercando soluzioni a questo problema, hanno dubbi legati a ciò che si sente dire dire.

Questi sono i tre consigli finali che ritengo più importanti per risolvere questo inestetismo.

1 Non bisogna trascurare questa patologia per il solo fatto che è di tipo “estetico”.
Se è vero che i trattamenti hanno un costo, più si aspetta e più la situazione peggiora. Di conseguenza, saranno necessari più tempo e maggiori spese quando una migliore prevenzione avrebbe potuto essere efficace.

2 È meglio non ascoltare le esperienze delle amiche ma piuttosto informarsi adeguatamente.
Questo problema è complesso e si possono incontrare molti approcci differenti. Ci sono casi in cui i risultati non sono buoni, ma va capito il perché e non bisogna concludere che un trattamento sia in assoluto migliore di un altro.

3 Bisogna rivolgersi ad uno specialista, e dovrebbe essere la stessa persona ad effettuare la visita, l’ecodoppler e il trattamento.
Questa patologia non va gestita da figure diverse, perchè è sempre lo specialista che ha una visione d’insieme.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5817453/?report=printable

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6327418/pdf/etm-17-02-1106.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4301449/pdf/13063_2014_Article_2369.pdf

https://www.jvascsurg.org/action/showPdf?pii=S0741-5214%2805%2900331-9

O. Marangoni, L. Longo. Lasers in Phlebology. Vessel Photothermolysis – Photocoagulation – Photodynamic Detersion – Scanner Debridment Endo – Perivasal Laser Procedures, Edizioni Goliardiche.

 

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La trombosi venosa superficiale si maniifesta con dolore lungo il decorso della vena interessata

Trombosi venosa superficiale: come riconoscerla e trattarla correttamente

La trombosi venosa superficiale è una patologia piuttosto temuta che si presenta soprattutto nella stagione estiva. Si tratta di un evento improvviso e non sempre prevedibile, che genera spesso preoccupazione anche solo per la presenza della parola “trombosi”.

In effetti, pur essendo benigna quando diagnosticata precocemente, la trombosi venosa superficiale può anche associarsi a complicanze gravi come le embiolie.
Per questo è opportuno riconoscerla il prima possibile e trattarla in maniera adeguata.

Come si riconosce una trombosi venosa superficiale? Qual è la terapia corretta?
In questo articolo ho riassunto le principali caratteristiche di questa patologia e le linee guida su come comportarsi.

Trombosi venosa superficiale: che cos’è?

La trombosi venosa superficiale si manifesta quando il sangue all’interno di una vena coagula spontaneamente. Questo fenomeno si verifica in una percentuale compresa fra il 3 e l’11% della popolazione generale, e le aree più colpite sono gli arti, soprattutto inferiori.

Si tratta di una patologia conosciuta anche con altri termini, come “flebite” o “tromboflebite superficiale”. Il termine “trombosi venosa superficiale”, però, è più corretto. Per semplicità, possiamo abbreviarlo con l’acronimo TVS.

Perché avviene questa coagulazione improvvisa del sangue? I motivi possono essere diversi. Tuttavia, ciò che contraddistingue la trombosi venosa superficiale è la sede della trombosi.
Le vene colpite, infatti, sono tutte superficiali. In particolare, esse si trovano nel tessuto sottocutaneo al di sopra della fascia che avvolge i muscoli. Questo differenzia la trombosi superficiale dalla trombosi venosa profonda (le vene profonde si trovano all’interno dei muscoli).

le vene colpite da trombosi venosa superficiale si trovano sopra la fascia muscolare

Trombosi venosa superficiale: meccanismi e cause

I meccanismi attraverso i quali si sviluppa una trombosi venosa superficiale sono principalmente tre. Essi sono il danno all’endotelio (lo strato di cellule vascolari a contatto diretto con il sangue), le alterazioni del flusso del sangue e le alterazioni della coagulazione del sangue.

Le cause della trombosi venosa superficiale invece sono molteplici, e agiscono attivando i meccanismi visti sopra.
Possiamo divederle in due gruppi. Da una parte ci sono le trombosi su vene varicose, dall’altra le trombosi su vene sane (non varicose).

Vene varicose

La presenza di vene varicose è la causa più frequente di trombosi venosa superficiale.
Cosa sono le vene varicose? Si tratta di vene dilatate e sporgenti che si sviluppano a livello delle gambe nelle persone che soffrono di insufficienza venosa. Questa malattia, legata a fattori genetici e ambientali e più frequente nelle donne, si caratterizza proprio per la perdita di funzione drenante delle vene.

Le vene varicose sono la causa più frequente di tromboflebite

In presenza di vene varicose la trombosi venosa superficiale ha una alta probabilità di verificarsi, soprattutto d’estate quando la temperatura esterna si alza. Il motivo è legato al rallentamento del flusso del sangue.
Infatti, le vene si comportano come dei tubi. Più fa caldo e più si dilatano, e più si dilatano meno velocemente il sangue scorre al loro interno. Se il sangue scorre lentamente, tende a coagulare di più.

La prevenzione della trombosi venosa superficiale è uno dei motivi per cui è opportuno trattare le vene varicose (come vedremo più avanti).

Vene non varicose

Se la trombosi venosa superficiale colpisce una vena non varicosa, le cause possono essere svariate. Vediamole una per una.

Neoplasie

L’associazione tra neoplasie e trombosi è nota da molto tempo. La forma più frequente di trombosi nei pazienti con neoplasia è proprio la trombosi venosa, che è presente nel 10-20% dei casi.

In che modo le neoplasie possono provocare una trombosi venosa superficiale?
Il primo fattore che entra in gioco è l’aumentata coagulabilità del sangue.
Le cellule tumorali, infatti, producono direttamente delle molecole che favoriscono la coagulazione del sangue. Questo processo chiama successivamente in causa anche le piastrine, che a loro volta amplificano il processo di trombosi.
Inoltre, il sangue tende a coagulare a causa di disidratazione, malnutrizione o altre condizioni critiche che si possono osservare nelle persone con gravi neoplasie.

Il secondo fattore è il rallentamento della circolazione sanguigna. I pazienti con neoplasia, infatti, possono restare a letto per molto tempo, per le condizioni critiche o perché hanno subito un intervento chirurgico. L’assenza di movimento delle gambe provoca ristagno di sangue e quindi maggiore tendenza alla coagulazione.

Il terzo fattore, cioè il danno endoteliale, può essere provocato direttamente dalle metastasi, ma anche dal posizionamento di cateteri per la chemioterapia oppure dai farmaci chemioterapici stessi.

Quali sono i tumori che più spesso provocano trombosi?
Vale la pena ricordare i tumori del pancreas, dello stomaco, dei polmoni, oltre che i tumori cerebrali, renali e ovarici.
I soggetti più a rischio sono le donne, specie se di età avanzata, e in generale i pazienti con maggiori complicazioni.

Trombofilia

Con il termine trombofilia intendiamo un insieme di condizioni genetiche e acquisite che provocano una maggiore propensione alla trombosi. Si tratta di una causa importante di trombosi venosa superficiale.
Quando è presente, la trombofilia aumenta anche il rischio che la trombosi si estenda alle vene profonde, o che si verifichi una seconda trombosi a distanza di breve tempo. Chiamiamo questo secondo fenomeno “recidiva”.

Soffermiamoci un po’ di più sulle condizioni genetiche che favoriscono la trombofilia.
Si tratta di mutazioni ereditarie dei geni coinvolti nella coagulazione del sangue. Molto semplicemente, le mutazioni di questi geni rendono più attivi i fattori della coagulazione nelle persone affette. Un esempio è la famosa mutazione del quinto fattore, chiamata fattore di Leiden.

Come si scopre se c’è una trombofilia ereditaria?
Bisogna fare dei test genetici, che sono piuttosto costosi. Le linee guida, però, raccomandano di non effettuare questi test di routine, ma solo se c’è il concreto sospetto di trombofilia.

Ma allora quando dobbiamo sospettare una trombofilia?
Se la trombosi venosa superficiale colpisce vene non varicose e abbiamo escluso la presenza di una neoplasia, la trombofilia è la prima causa da considerare. Lo stesso vale se la trombosi progredisce nonostante il paziente stia assumendo una terapia anticoagulante.

Anche quando la trombosi colpisce la safena e questa non mostra segni di insufficienza venosa, bisogna sospettare una trombofilia. Essa, infatti, è presente nel 50% di questi casi.

Infine, se la trombosi venosa superficiale colpisce pazienti di età inferiore ai 40-45 anni e con storia familiare di trombosi, va sempre sospettata una trombofilia.

In questi casi è opportuno procedere con i test.

Gravidanza

In gravidanza la donna ha un rischio di sviluppare una trombosi cinque volte maggiore rispetto alla donna non gravida. Questo accade per gli stessi meccanismi visti in precedenza, con alcune peculiarità legate proprio allo stato di gestazione.

Inoltre, in gravidanza si osserva spesso un peggioramento dell’insufficienza venosa e una maggiore dilatazione delle vene varicose. Questo favorisce a sua volta l’insorgenza di una trombosi venosa superficiale.

Per saperne di più sulla trombosi in gravidanza puoi cliccare qui.

Terapia ormonale

Gli ormoni sessuali femminili riducono il tono delle vene e fanno così diminuire la loro attività propulsiva. Di conseguenza, il sangue si muove più lentamente, favorendo l’innesco della trombosi.
Il rischio aumenta se la paziente fuma.

Per quanto riguarda la pillola anticoncezionale, essa è notoriamente un fattore di rischio per la trombosi venosa profonda, mentre non è chiaro se abbia un’associazione diretta con la trombosi venosa superficiale.

Morbo di Buerger

Questa grave patologia infiammatoria danneggia in maniera progressiva le arterie piccole e medie degli arti, provocando ostruzione, trombosi e spesso necessità di amputazione.
Colpisce pressoché esclusivamente i giovani maschi fumatori ed è diversa dall’aterosclerosi.

Tra le manifestazioni del morbo di Buerger, nel 16% dei casi si osservano trombosi venose superficiali progressive. La presenza di questa complicanza indica uno stato infiammatorio particolarmente grave. Inoltre, la presenza di trombosi venosa superficiale preclude la possibilità di operare questi pazienti con un bypass arterioso, di norma effettuato proprio utilizzando le vene sottocutanee.
La cessazione del fumo ha un sorprendente effetto di miglioramento clinico su questa patologia.

Sindromi immunologiche

La trombosi venosa superficiale si può osservare in alcune particolari sindromi immunologiche.

Sindrome di Trousseau

Questa sindrome clinica è caratterizzata da trombosi venose superficiali ricorrenti agli arti superiori e inferiori. Essa si associa tipicamente ad alcune neoplasie come tumori cerebrali, adenocarcinomi del tratto gastrointestinale (stomaco, colon e pancreas), adenocarcinomi polmonare, mammario, ovarico e prostatico. Sembra essere dovuta ad una iper-coagulabilità del sangue.

Sindrome di Mondor

Si tratta di una condizione rara che colpisce soprattutto le donne. Si manifesta con multiple trombosi venose superficiali delle vene del torace, soprattutto nelle regioni anteriore e posteriore.
Le cause non sono note. Sembra, tuttavia, che giochino un ruolo i traumi, l’uso di contraccettivi orali, e alcune forme di trombofilia.

Traumi o iniezione di sostanze irritanti

Il posizionamento di un catetere venoso per l’infusione di farmaci o un semplice prelievo del sangue possono a volte provocare una trombosi venosa superficiale. Questo avviene per un danno diretto alle cellule endoteliali delle vene.

Un prelievo di sangue può raramente causare una trombosi venosa superficiale

Il danno può essere dovuto all’azione meccanica del catetere o dell’ago oppure al danno chimico della sostanza iniettata. Quest’ultimo caso riguarda, ad esempio, i farmaci usati nella chemioterapia dei tumori e le sostanze stupefacenti iniettate per via endovenosa.

Trombosi venosa superficiale: conseguenze

I percoli principali legati a una trombosi venosa superficiale sono l’estensione della trombosi e le embolie. Il terzo problema sono le possibili recidive.

Estensione della trombosi

Consiste nella progressione del processo di coagulazione dalle vene superficiali a quelle profonde. Ciò avviene perché questi due compartimenti sono in comunicazione tra loro.
Le vene superficiali, infatti, confluiscono in quelle profonde in punti ben precisi come l’inguine e il cavo popliteo (la zona che sta dietro il ginocchio). Ci sono anche molte altre connessioni, realizzate attraverso alcune particolari vene chiamate vene perforanti. Esse attraversano i muscoli dalla superficie alla profondità connettendo i due sistemi venosi.

Tra i pazienti con trombosi venosa superficiale, una percentuale tra il 6 e il 40% ha anche una concomitante trombosi venosa profonda. Se la trombosi superficiale si verifica su vene non varicose, la probabilità di un simultaneo coinvolgimento alle vene profonde aumenta.
Le percentuali variano leggermente nei vari studi, ma ci fanno comunque capire che si tratta di una possibilità non rara.

Quando una trombosi venosa superficiale si estende alle vene profonde, il pericolo di embolie aumenta. Vediamo di cosa si tratta e perché è un rischio da evitare assolutamente.

Embolie

Si parla di embolia quando un frammento di sangue coagulato si stacca dalla sede di trombosi e segue la circolazione del sangue. Arrivato al cuore, l’embolo più probabilmente andrà a finire ai polmoni, ostruendo la circolazione e creando così un grave pericolo per la vita. Si tratta dell’embolia polmonare.

Anche se la trombosi è superficiale può verificarsi un'embolia
Se invece il cuore ha delle malformazioni, l’embolo potrebbe anche passare direttamente nelle arterie. A questo punto finirebbe per ostruire un vaso cerebrale oppure si bloccherebbe a livello degli arti. In questo caso si parla di embolia paradossa.

Secondo una recente metanalisi, nel 18% circa dei casi di trombosi venosa superficiale si verifica un’embolia polmonare.
Come abbiamo visto, il coinvolgimento di una vena profonda aumenta il rischio di embolie, ma questa complicanza può verificarsi anche se la trombosi resta in superficie. Ecco perché, come vedremo dopo, in caso di trombosi venosa superficiale è generalmente opportuno fare una terapia anticoagulante

Recidive

La trombosi venosa superficiale può recidivare se non ne viene identificata e rimossa la causa.
In caso di trombosi su vene varicose, la cura è l’intervento alle varici.
Se la trombosi si verifica su vene non varicose, il rischio di recidiva è di per sé già aumentato. Come abbiamo visto, vanno ricercate ed escluse le principali cause (neoplasie e trombofilia).

Trombosi venosa superficiale: come si riconosce?

La trombosi venosa superficiale è semplice da diagnosticare. Si manifesta con un indurimento e un arrossamento lungo il decorso della vena interessata, che di solito diventa anche dolente. Questo quadro clinico è dovuto all’infiammazione scatenata dalla coagulazione anomala del sangue.

In presenza di questi sintomi è indicato eseguire un ecocolordoppler venoso. Questo esame ha due funzioni: confermare o meno la presenza della trombosi ed escludere il coinvolgimento delle vene profonde. Si tratta di una procedura rapida, poco costosa e senza rischi per il paziente.

L'ecodoppler è l'esame fondamentale nel sospetto di trombosi

Che altre informazioni dà l’ecodoppler?
Consente di stimare l’estensione della trombosi e, in particolare, vedere se sono coinvolte le vene safene. Queste vene decorrono tra le vene di superficie e il piano muscolare, e sono strettamente collegate con le vene varicose. L’eventuale coinvolgimento delle vene safene, come vedremo più avanti, cambia l’approccio terapeutico.
L’ecodoppler permette inoltre di capire se la trombosi è recente o meno, a seconda di quanto il sangue coagulato riflette gli ultrasuoni.

Trombosi venosa superficiale: perché e come si cura?

I motivi per cui è opportuno trattare la trombosi venosa superficiale sono tre. Bisogna prevenire l’estensione della trombosi ed evitare le embolie, favorire per quanto possibile la riapertura della vena e alleviare i sintomi.
Questi effetti si ottengono rispettivamente con terapia anticoagulante, calza elastocompressiva e farmaci antinfiammatori e topici, rispettivamente.

Aggiungiamo un paio di considerazioni.
La terapia con antibiotici non è indicata in quanto la trombosi non è un fenomeno infettivo (purtroppo a volte si vede prescrivere ancora).
Quando la trombosi venosa superficiale è dovuta al posizionamento di un catetere per infusione, è indicato rimuoverlo.

Vedremo poi quando è indicato il trattamento chirurgico nei casi di trombosi venosa superficiale su vene varicose.

Terapia anticoagulante

Questa terapia sfrutta la capacità di alcuni farmaci di bloccare selettivamente la coagulazione del sangue. Ci sono le eparine per via sottocutanea e gli anticoagulanti orali.

Eparine

Le eparine per via sottocutanea rappresentano il principale trattamento per la trombosi venosa superficiale. Si tratta di sostanze anticoagulanti che si somministrano attraverso piccole punture appena sotto la cute, di solito sulla pancia. Ce ne sono di diverso tipo, e vari studi ne hanno indagato gli effetti in relazione al dosaggio.

L'eparina a basso peso molecolare è il trattamento di scelta per la TVS
Da notare che si misurano in unità internazionali (UI) e si possono somministrare una o due volte al giorno.

Eparina non frazionata – si tratta della molecola di eparina più grezza.
Uno studio ne ha esaminato l’effetto su un piccolo campione di soggetti con trombosi venosa superficiale. Si è osservata una minore frequenza di embolie polmonari nei casi trattati con alto dosaggio (12500 UI due volte al giorno) rispetto a quelli trattati con basso dosaggio (5000 UI due volte al giorno).
Non è comunque il farmaco di scelta per la trombosi venosa superficiale.

Enoxaparina – questa molecola fa parte delle eparine a basso peso molecolare.
Gli studi hanno mostrato che dosi basse ed elevate danno lo stesso risultato in termini di diminuzione di embolia polmonare, recidive ed estensione della trombosi.
Quindi, è sufficiente una dose profilattica di Enoxaparina (4000 UI al giorno) per 4 settimane per ottenere una protezione efficace.

Fundaparinux – anche questa molecola, al dosaggio di 2,5 mg al giorno, ha mostrato riduzione significativa delle embolie e dell’estensione della trombosi, oltre che miglioramento dei sintomi.
Il confronto è stato fatto con il placebo in un ampio studio che ha esaminato oltre 3000 pazienti con trombosi venosa superficiale.

Si tratta, come ribadiremo più avanti, del farmaco di scelta per il trattamento della trombosi venosa superficiale nei pazienti a basso rischio embolico.
Infatti, le linee guida del 2012 redatte dall’American College of Chest Physicians consigliano il Fundaparinux (2,5 mg al giorno per 45 giorni) piuttosto dell’Enoxaparina in caso di trombosi venosa superficiale degli arti inferiori, se estesa per almeno 5 cm.

Anticoagulanti orali

Sono farmaci che si assumono per bocca, solitamente quando dobbiamo trattare la trombosi venosa profonda.
Esistono di due tipi di anticoagulanti orali. Ci sono i dicumarolici e i farmaci di nuova generazione, chiamati DOAC’s.

Dicumarolici – sono i vecchi farmaci anticoagulanti che richiedono ripetuti prelievi del sangue per controllarne il corretto dosaggio.

DOAC’s (Direct Oral Anti Coagulants) – si tratta di farmaci di ultima generazione che non hanno bisogno di alcun prelievo ematico. Anche in questo caso, sono comunemente usati nella trombosi venosa profonda.

Si possono usare questi farmaci nella trombosi venosa superficiale? La risposta è no. L’unica eccezione esiste quando la trombosi giunge a ridosso delle vene profonde, di solito a 3 cm o meno. In questo caso la trombosi va considerata a tutti gli effetti come se fosse una trombosi venosa profonda.

Negli altri casi, l’uso degli anticoagulanti orali è oggetto di studio per quanto riguarda i farmaci di ultima generazione.
Una recente metanalisi ha mostrato efficacia dei DOAC’s nella prevenzione dell’embolia polmonare e nella diminuzione delle recidive in pazienti con trombosi venosa superficiale. In questo studio essi sono stati confrontati con i Dicumarolici, e hanno anche dimostrato minore rischio di sanguinamento (un problema comune a molti anticoagulanti).

Un altro studio ha comparato un appartenente alla famiglia dei DOAC’s, il Rivaroxaban al dosaggio di 10 mg al giorno, con il Fundaparinux da 2,5 mg. Sono stati trattati casi di trombosi venosa superficiale sotto il ginocchio estese per almeno 5 cm.
Si sono rilevate similari efficacia e sicurezza tra i due farmaci. Tuttavia, il Rivaroxaban non è attualmente raccomandato nel trattamento della trombosi venosa superficiale.

Calza elastica

La calza elastica è un dispositivo medico che esercita una compressione esterna sull’arto, favorendo lo scioglimento della trombosi e la remissione dei sintomi.
In caso di trombosi venosa superficiale, le linee-guida consigliano di indossarla associandola però alla terapia anticoagulante. Infatti, se usata in assenza di trattamento farmacologico non dà gli stessi risultati.

Che tipo di calza elastica bisogna usare?
Ci sono diversi tipi di calza elastica e ciascuno ha le sue funzioni (ne ho parlato qui). In caso di trombosi venosa superficiale bisogna usare una calza elastica terapeutica a compressione graduata.

In caso di trombosi venosa superficiale va applicata una calza elastica

Cosa significano queste due definizioni?
La tipologia d calza deve esercitare una pressione ben precisa sull’arto (terapeutica) e questa pressione deve decrescere dalla caviglia alla coscia (compressione graduata). Negli studi analizzati essa è stata applicata per tre settimane.

Eparinoidi topici

Sono farmaci che si applicano sotto forma di pomate direttamente nella zona colpita da trombosi. Agiscono riducendo l’infiammazione attorno alla vena e alleviando i sintomi.
Non c’è evidenza che riducano il rischio di embolie o di trombosi recidive.

FANS

Sono i farmaci antinfiammatori non steroidei che si usano comunemente per il dolore.
Alcuni studi hanno mostrato che essi riducono sia l’estensione della trombosi sia la frequenza di recidive se comparati con il placebo, ma in misura minore rispetto alle eparine. Ciò è dovuto alla loro azione sulle piastrine, che sotto il loro effetto tendono ad attivarsi di meno mantenendo il sangue un po’ più fluido.

I FANS sono indicati se la trombosi venosa superficiale è poco estesa (meno di 5 cm) e se c’è un basso rischio trombo-embolico.

Terapia chirurgica

Può servire un intervento chirurgico in caso di trombosi venosa superficiale?
Se le vene colpite sono non varicose, la chirurgia è sconsigliata perché non risolverebbe il problema.
In queste situazioni, infatti, è indicata la terapia anticoagulante. Questo vale a maggior ragione in presenza di concomitante trombosi venosa profonda o embolia polmonare.

Se le vene sono varicose, il discorso è diverso.
Dobbiamo distinguere la fase acuta della trombosi dalla fase stabilizzata.

Fase acuta

Quando la trombosi è in fase acuta, cioè si è appena verificata, l’obiettivo dell’intervento chirurgico dovrebbe essere quello di alleviare i sintomi e bloccare la progressione del trombo nelle vene profonde. Per questo sono state studiate diverse procedure chirurgiche per capire se portassero un reale beneficio.

Gli studi in letteratura, a tale proposito, sono molteplici.
I risultati hanno mostrato che, in effetti, nella fase acuta la chirurgia sembra alleviare i sintomi e l’estensione della trombosi venosa superficiale. Il livello di evidenza, però, è risultato basso.
D’altra parte, in termini di coinvolgimento delle vene profonde ed embolia, non sembra esserci un reale vantaggio della chirurgia rispetto alla terapia anticoagulante.
Dobbiamo anche tenere presente che effettuare un intervento nella fase acuta potrebbe essere addirittura controproducente. Alcuni studi, infatti, mostrano che il trauma chirurgico attiverebbe paradossalmente la coagulazione del sangue provocando embolie.

In conclusione, nella fase acuta della trombosi venosa superficiale il trattamento che generalmente si consiglia è la terapia anticoagulante.

C’è però una situazione particolare, che abbiamo in parte visto prima.
Essa si verifica quando la trombosi venosa superficiale coinvolge le vene safene giungendo a ridosso della loro confluenza con le vene profonde. In questo caso, il trombo potrebbe estendersi facilmente al sistema venoso profondo e l’interruzione chirurgica della vena colpita potrebbe essere utile ad evitarlo.

Anche questa situazione è stata molto dibattuta in letteratura.
Secondo le attuali linee-guida italiane, sia la legatura/asportazione chirurgica della vena sia la terapia anticoagulante sono in questi casi soluzioni applicabili. Infatti, non ci sono studi che abbiano chiaramente dimostrato la superiorità di una terapia rispetto all’altra.
Nella pratica clinica, tuttavia, anche in questa condizione si tende a preferire la terapia anticoagulante. Essa, come abbiamo visto, va somministrata ad alto dosaggio come si fa nella trombosi venosa profonda.

Fase stabilizzata

Dopo la che la trombosi venosa superficiale si è stabilizzata è opportuno intervenire chirurgicamente asportando le vene varicose. In questo modo si prevengono efficacemente le trombosi recidive.

L’intervento può consistere nella chiusura di un breve tratto di safena, ad esempio con il laser. Questa procedura si può associare o meno alla rimozione delle varici attraverso piccolissime incisioni (flebectomia ambulatoriale).

Trombosi venosa superficiale: indicazioni terapeutiche

Riassumiamo quindi le principali indicazioni terapeutiche in caso di trombosi venosa superficiale.

1. Trombosi poco estesa (meno di 5 centimetri), localizzata sotto il ginocchio e lontana da vene perforanti e safene: la terapia si può limitare a pomate eparinoidi, FANS e utilizzo di calza elastica.

2. Trombosi estesa per oltre 5 centimetri, o coinvolgente le vene safene o ancora in presenza di un maggiore rischio di embolie per qualsivoglia motivo: opportuna terapia anticoagulante (Fundaparinux 2,5 mg al giorno per 45 giorni).

3. Trombosi che giunge a ridosso delle vene profonde (3 cm o meno): terapia anticoagulante a dosaggio alto per almeno 3 mesi.

Conclusioni

La trombosi venosa superficiale è una patologia da non sottovalutare.
Abbiamo visto, infatti, che può complicarsi con una embolia polmonare, anche se con minore probabilità rispetto alla trombosi venosa profonda.

In presenza di sintomi, soprattutto se si è soggetti predisposti, bisogna effettuare quanto prima un ecodoppler venoso. L’esame serve a confermare la diagnosi e a ottenere informazioni importanti per scegliere la terapia idonea.

Questa patologia può anche essere la spia di problemi gravi come la trombofilia o un tumore. D’altra parte, una volta trattata la trombosi, è opportuno eliminare le cause che l’hanno provocata per non incorrere in una recidiva.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6880617/pdf/jvb-18-e20180105.pdf

https://journal.chestnet.org/action/showPdf?pii=S0012-3692%2812%2960129-9

https://www.sdb.unipd.it/sites/sdb.unipd.it/files/Anfiologia%20Flebologia%20Linne%20Guida%202016.pdf

https://www.journal-of-cardiology.com/action/showPdf?pii=S0914-5087%2818%2930061-3

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/28613608/

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/jth.12986

Dopo l'intervento alla safena possono comparire varici recidive

Intervento alla safena e varici recidive

L’intervento alla safena è una procedura che serve a migliorare una situazione di insufficienza venosa. Questa patologia, che colpisce soprattutto le donne, si manifesta con una dilatazione delle vene superficiali delle gambe, che diventano visibili e fastidiose. Si tratta delle cosiddette varici o vene varicose.
Anche dolore, gonfiore e pesantezza alle gambe fanno parte del quadro clinico.

Nonostante si tratti una procedura efficace, dopo un intervento alla safena possono comparire nuove vene varicose. Questo fenomeno, che avviene di solito a distanza di tempo, viene chiamato recidiva.

Perché compaiono le recidive?
I motivi sono due. Il primo è che la malattia ha una componente genetica e non si può guarire alla radice. Il secondo è che ci sono fattori specifici che le causano.

Come bisogna comportarsi con le recidive dopo intervento alla safena? Ha senso trattarle se poi si riformano?
In questo articolo cercherò di rispondere in maniera semplice a queste domande, con lo scopo di darti delle linee guida per risolvere il problema.

Intervento alla safena: che cos’è?

L’intervento alla safena è una procedura chirurgica che si effettua in ambulatorio, in anestesia locale e senza incisioni sulla cute. Viene indicato dallo specialista quando si verificano al tempo stesso due situazioni.

La prima è la presenza di sintomi (dolore, gonfiore o pesantezza alle gambe), oppure episodi di trombosi venosa superficiale o emorragia. Ancora, quando le vene varicose sono particolarmente evidenti da compromettere l’estetica delle gambe.

La seconda è il riscontro di cattivo funzionamento della safena a livello delle sue principali valvole. Queste valvole si trovano all’altezza dell’inguine, nel punto in cui la safena confluisce nella vena più profonda. Si chiamano valvola terminale (quella più in alto) e valvola pre-terminale (quella più in basso).
Per capire meglio questa seconda situazione dobbiamo capire come funziona la safena e come si ammalano le vene.

La vena grande safena si trova sul lato interno della gamba e prosegue il suo decorso nella coscia, fino all’altezza della piega dell’inguine. Al suo interno il sangue scorre dal basso verso l’alto, contro la forza di gravità. Questo fenomeno è fisiologicamente possibile grazie all’azione sinergica di due componenti: la contrazione dei muscoli del polpaccio da una parte, la chiusura delle valvole venose dall’altra.
I muscoli del polpaccio pompano il sangue verso l’alto mentre camminiamo. Le valvole venose impediscono al sangue di tornare indietro quando stiamo in piedi. Esse sono presenti non solo all’inguine ma anche lungo il decorso della safena.

Decorso della vena grande safena

Decorso della vena grande safena

La vena piccola safena, invece, si trova sul lato posteriore della gamba e confluisce nella vena poplitea, generalmente dietro il ginocchio.
Per semplicità ci riferiremo sempre alla vena grande safena. Tieni però presente che quello che ti dirò sull’intervento alla safena si può benissimo riferire anche alla safena più “piccola”.

Quando si verificano le condizioni viste sopra significa che le vene non funzionano correttamente e il sangue non scorre nella giusta direzione.
Le valvole, che possiamo immaginare come delle dighe, non tengono più. Il sangue torna indietro verso il piede, ristagna e provoca disturbi. Le vene più superficiali si dilatano, diventando varicose.
I pericoli, in questo caso, sono le trombosi e le emorragie.

Possiamo capire meglio questa situazione immaginando un rubinetto aperto (la safena) che allaga un recipiente (la gamba e il piede) fino a farlo straripare (gonfiore alla gamba).
Come dobbiamo intervenire? Bisogna chiudere il rubinetto, ridurre il ristagno di sangue e far passare i disturbi.
L’intervento alla safena serve proprio a questo.

Intervento alla safena: in cosa consiste?

Al giorno d’oggi l’intervento alla safena può essere davvero poco invasivo. Ma come si svolge nello specifico?
Partiamo innanzitutto da ciò che bisogna fare prima dell’intervento: un esame ecocolordoppler.
Si tratta di un passaggio fondamentale, perché consente di studiare la circolazione venosa, individuare le valvole che non funzionano e marcare esattamente i punti dove le vene sono varicose.
Solo dopo questo inquadramento diagnostico si potrà procedere con l’intervento.

Prima di un intervento alla safena è fondamentale eseguire un ecodoppler

Non essendo necessario un ricovero, il paziente raggiunge l’ambulatorio e si accomoda sul lettino chirurgico. L’infermiere posiziona un catetere venoso alla piega del gomito, una semplice prassi per eseguire la procedura in sicurezza.

In anestesia locale, si introduce un sottile catetere all’interno della safena dopo una puntura nella parte bassa della coscia. Attraverso questo catetere verrà inserita la fibra laser e la si farà risalire fino all’inguine, seguendola con l’ecografia.
Dopo aver impostato correttamente i parametri, una breve emissione del laser consente di bruciare la safena in prossimità della sua confluenza con la vena profonda, sempre dopo anestesia locale.
La scarica del laser provocherà un danno termico alla parete venosa, che, implodendo, bloccherà il flusso retrogrado del sangue.
A questo punto il rubinetto è chiuso, ma bisogna completare il trattamento.

L’utilizzo di una sostanza chiamata schiuma sclerosante, associata al laser, è il massimo dell’efficacia per portare a termine la procedura in maniera ottimale. Si tratta di un farmaco in forma schiumosa che infiamma la parete della vena, favorendone la chiusura.

A questo punto, un ulteriore trattamento laser lungo il decorso della safena potrà assicurare una completa occlusione.
In questa fase l’anestesia locale viene iniettata attorno alla safena per proteggere i tessuti circostanti dall’emissione del laser. Questa tecnica si chiama tumescenza.

Nella fase finale di un intervento alla safena è preferibile rimuovere anche le vene varicose più superficiali. Praticando piccole punture sulla cute, queste vene vengono estratte con un uncino. Questa procedura si chiama flebectomia.

Dopo l'intervento alla safena vanno tolte le vene varicose superficiali
Le raccomandazioni finali sono di utilizzare una calza elastica correttamente prescritta e di evitare di stare fermi in piedi per troppo tempo. Si può tornare a lavorare, ma meglio tenere la gamba in alto quando si è seduti.

Intervento alla safena: ci sono alternative?

L’intervento alla safena con laser e schiuma sclerosante non è l’unica alternativa possibile, ma è certamente una delle soluzioni migliori. Questa procedura, infatti, è efficace e ben tollerata dai pazienti.
Vediamo in quali altri modi si può effettuare un intervento alla safena.

Stripping

Si tratta del classico intervento chirurgico alla safena. Si chiama così perché la safena viene letteralmente “strappata” ed estratta attraverso due piccole incisioni, una all’inguine e una più in basso.

Questa tecnica è un po’ superata, ma si pratica ancora spesso negli ospedali.
Gli svantaggi sono legati all’incisione inguinale, che può danneggiare i linfonodi sottostanti e dare problemi di cicatrizzazione, soprattutto nei soggetti obesi.
Bisogna fare attenzione anche alle possibili lesioni nervose.

Radiofrequenza

La radiofrequenza sfrutta una radiazione elettromagnetica per riscaldare la safena fino a bruciarla. Alla temperatura di 85 °C, infatti, le pareti della vena collassano e il vaso sanguigno si occlude.
Si tratta dello stesso concetto del laser. La scelta, in questo caso, dipende dall’esperienza dell’operatore.

Colla

Negli ultimi tempi la tecnologia ha consentito di creare delle speciali colle di cianoacrilato che tappano la safena. I risultati di queste procedure sono ottimi, anche se si tratta di un materiale piuttosto costoso.

Intervento alla safena o preservare la safena?

Molti pazienti si chiedono: dove andrà a finire il sangue se chiudiamo la safena?
La domanda è giustissima. La risposta è che, una volta chiusa la safena, il sangue trova altre vie per circolare e i sintomi dovuti al suo ristagno migliorano.

Tuttavia, quando possibile, è opportuno preservare la safena. I motivi sono due: si può recuperare la sua funzione di drenaggio e la si può utilizzare in futuro, ad esempio per un bypass al cuore.

Ci sono diverse situazioni in cui la safena può essere preservata e ci sono specifiche tecniche consentono di lasciarla in sede. Questo potrà essere l’argomento di un prossimo articolo!
Nel frattempo, è importante ricordare una cosa: in flebologia non esiste un unico metodo sempre corretto, ma ci sono tanti approcci diversi, ognuno con i suoi pro e contro.

Recidive dopo intervento alla safena: cosa sono?

Le recidive dopo intervento alla safena sono un fenomeno piuttosto frequente. In base agli studi presenti in letteratura, compaiono in una percentuale che varia dal 7% al 65% dei pazienti operati.

I pazienti, però, non sembrano dare molta importanza a questo problema, almeno in generale. L’opinione comune è che le recidive siano la dimostrazione che operarsi alle vene non serve, tanto le varici ritornano comunque.
Questa affermazione è facilmente eccepibile.

Innanzitutto, se non gestissimo questa malattia con interventi periodici e mirati avremmo una moltitudine di complicazioni. Pensiamo ad esempio a trombosi, emorragie, gonfiore alle gambe e ulcere alle caviglie; la natura degenerativa dell’insufficienza venosa esporrebbe a questi rischi.
Inoltre, gli inestetismi sarebbero pesanti e difficilmente rimediabili.

Per capire ancora meglio l’importanza del suo trattamento, è utile pensare all’insufficienza venosa come alle carie dentali. Se ne ho una o due posso aspettare e trattarle con calma. Se però passano gli anni, rischio di avere ascessi e dolore. Inoltre, se non curo i denti se ne formeranno delle altre.
Cosa succede alla fine? Credo che dovrò ricorrere ad una protesi dentaria perché i miei denti sarebbero irreversibilmente danneggiati.

Recidive dopo intervento alla safena: cause

In base alla letteratura scientifica possiamo identificarne quattro.

Errore tattico e tecnico

Queste due situazioni rappresentano insieme dal 55 al 70% dei casi di recidive. Di cosa si tratta?

L’errore tattico consiste in una errata pianificazione dell’intervento alla safena. Esso può verificarsi in due casi.
Il primo avviene quando non si identificano correttamente i punti dove le valvole non funzionano. Il secondo, invece, quando vengono lasciate in sede alcune vene varicose, perché non riconosciute come malate.

Questa seconda possibilità può essere anche voluta, se ad esempio ci sono troppe vene varicose da togliere. In questo caso si può decidere di lasciarne in sede alcune per poi trattarle in un secondo momento. Lo scopo è di non incidere troppo la cute del paziente.

L’errore tecnico avviene quando l’intervento è pianificato correttamente ma per qualche ragione non va a buon fine. In particolare, questo succede quando la safena non si chiude completamente.
Si parla in questo caso di ricanalizzazione.
La ricanalizzazione, quando è precoce, può avvenire se la vena è molto dilatata oppure se l’energia erogata non è sufficiente per bruciare la parete.

Progressione della malattia

Nel 20-25% dei casi le recidive si sviluppano su vene che precedentemente non erano varicose.
Questo accade perché l’insufficienza venosa ha una componente genetica e una natura evolutiva. Le vene sono “programmate” per dilatarsi, anche se devono intervenire fattori ambientali per innescare il processo. I più importanti sono la stazione eretta prolungata, l’esposizione a fonti di calore, le anomalie posturali e l’obesità. Tra i più importanti, però, ci sono gli ormoni sessuali femminili e la gravidanza.

Un esempio di questa recidiva si osserva quando si sviluppano varici nel sistema safenico non sottoposto ad intervento. Cosa significa? Se un paziente è stato operato alla vena grande safena, potremmo osservare nuove varici nel territorio della vena piccola safena.

Un altro caso di progressione della malattia si osserva quando le recidive sono collegate alle vene perforanti.
Le vene perforanti connettono le vene superficiali con quelle profonde attraversando i muscoli. Al loro interno il sangue scorre dalla superficie alla profondità. Anche qui ci sono delle valvole che assicurano la corretta direzione al flusso, altrimenti la spinta della contrazione muscolare farebbe andare il sangue in superficie.

Le recidive dopo intervento alla sadfena possono essere connesse alle vene perforanti

Dopo un intervento alla safena può svilupparsi un’inversione di flusso proprio a livello di alcune vene perforanti. In questo caso si parla di “incompetenza” di queste vene.
Uno studio dei primi anni 2000 ha mostrato, infatti, una maggiore frequenza di perforanti incompetenti nei pazienti con recidive. La conseguenza di ciò è una progressiva dilatazione delle vene superficiali che si collegano ad esse.

Neovascolarizzazione

Questo termine indica la crescita di nuove vene varicose in aree o tessuti dove prima non ce n’erano. Come si spiega questo fenomeno?
Nei tessuti dell’organismo ci sono cellule “primordiali” che possono moltiplicarsi e differenziarsi diventando vasi sanguigni, se opportunamente stimolate. L’input è dato da alcune sostanze chiamate “fattori di crescita”.
I fattori di crescita vengono prodotti da cellule specifiche in situazioni come traumi (pensiamo ad un intervento chirurgico), mancanza di ossigeno o infiammazioni.

Come nascono nuove vene dopo l’intervento alla safena?
La neovascolarizzazione sembra essere più frequente dopo lo “stripping” piuttosto che dopo l’intervento con laser e schiuma sclerosante. I nuovi vasi sanguigni si formano proprio all’interno della fascia muscolare che accoglie la safena strappata.
Infatti, il traumatismo legato al distaccamento di questa grossa vena sembra essere il fattore di stimolo principale. Anche i fili di sutura e le piccole trombosi, che sono conseguenti all’intervento, contribuirebbero a questo fenomeno.

Per quanto riguarda la frequenza della neovascolarizzazione, in base ad alcuni dati scientifici si tratterebbe della causa principale di recidive.
La percentuale con cui si manifesta però è variabile, con un range che va dall’ 8% al 60% di tutte le recidive secondo alcuni studi, dal 25% al 90% secondo altri.

Le vene recidive da neovascolarizzazione sono molto tortuose e per questo facilmente riconoscibili all’ecodoppler. Con il tempo tendono a crescere fino a connettere nuovamente la vena femorale con il segmento di safena residua della gamba. Anche i rami venosi più superficiali possono essere la sede finale del nuovo collegamento.

Recidive dopo intervento alla safena: tipologie

La classificazione delle recidive dopo intervento alla safena è stata oggetto di alcuni studi scientifici. Possiamo dividerle in tre gruppi, che si differenziano per le cause di insorgenza e le caratteristiche delle vene recidive.

TIPO 1
Sono vene varicose residue che non sono state tolte con l’intervento, per errore tattico o per trattarle in un secondo momento. Di solito sono presenti ad un mese di distanza dall’intervento.

TIPO 2
Si tratta di recidive che compaiono per neovascolarizzazione oppure per errore tecnico o tattico. Solitamente sono assenti ad un mese dall’intervento e si manifestano successivamente.

TIPO 3
In questo caso le recidive compaiono a distanza di tempo dall’intervento in aree precedentemente non trattate. La causa è l’evoluzione della malattia.

Recidive dopo intervento alla safena: trattamento

Anche se le recidive tendono per natura a manifestarsi, solo trattandole in maniera programmata e mirata si può controllare la patologia. Lo scopo è di evitare che queste vene si dilatino troppo e aumentino di distribuzione in maniera eccessiva.
Inoltre, è bene non sovraccaricare troppo il sistema venoso superficiale.

In caso di recidive poco visibili e che non danno disturbi, può essere opportuno tenerle momentaneamente in osservazione.
Se il paziente ha una esigenza estetica, però, il discorso è diverso. In questo caso bisogna valutare le caratteristiche delle recidive e scegliere il trattamento che dia un risultato visivamente migliore.

Vediamo le possibili terapie per ogni tipo di recidiva.

TIPO 1
Trattandosi di varici lasciate in sede in occasione dell’intervento, esse non sono vere recidive.

Se queste vene hanno un po’di tessuto che le ricopre, si possono trattare con la schiuma sclerosante per chiuderle o comunque renderle meno visibili.
Nel caso in cui siano molto sporgenti sulla cute, è meglio effettuare una piccola flebectomia chirurgica. In questo caso, la schiuma sclerosante infiammerebbe troppo la vena con il rischio di lasciare una macchia di pigmentazione.

Dopo intervento alla safena si può effettuare una flebectomia chirurgica

Fasi della flebectomia chirurgica

TIPO 2
Le recidive che si formano per neovascolarizzazione sono ideali per il trattamento con schiuma sclerosante.

Se si trovano nella fascia muscolare, dove prima c’era la safena, la schiuma ha un’indicazione ottimale. Questo per due motivi.
Il primo è che le vene hanno una certa profondità, il che protegge dalle pigmentazioni. Il secondo è che, essendo tortuose, sarebbe molto rischioso far passare al loro interno una fibra laser.
La cosa importante è trovare il punto dove c’è l’origine del flusso retrogrado di sangue, se presente.

Se le recidive da neovascolarizzaizone sono superficiali, vale lo stesso discorso visto nelle recidive di Tipo 1.

TIPO 3
In questo caso ci comporteremo come se si trattasse di vene varicose primitive.
Se le recidive si trovano nel sistema safenico non operato, l’approccio sarà lo stesso che abbiamo visto per l’intervento alla safena. In particolare, se non funziona la valvola terminale procederemo con l’intervento visto in precedenza (laser + schiuma sclerosante). Se a non funzionare è solo la valvola pre-terminale, sarebbe opportuno preservare la safena, se possibile.

In presenza di vene perforanti incompetenti bisogna valutarne il calibro, la profondità e il decorso (dritto o tortuoso). In base a queste caratteristiche si potrà decidere come chiudere il rubinetto. Le alternative possono essere schiuma sclerosante o colla.
Le vene varicose di superficie connesse alle perforanti possono essere trattate con le metodiche viste prima.

Consigli

In presenza di recidive dopo intervento alla safena è assolutamente opportuno sottoporsi a una visita specialistica. Questa serve ad avere una valutazione di partenza e pianificare il futuro iter, sia esso un trattamento specifico oppure il semplice follow-up.

Bisogna ricordare l’importanza di usare una calza elastica nei soggetti che presentano delle recidive. Essa ha la funzione di supportare il sistema venoso con la sua compressione esterna. L’altrà importante utilità di questo presidio è che aiuta a prevenire le trombosi venose superficiali.

In presenza di sintomi acuti come dolore o arrossamento lungo il decorso di una vena, è bene farsi vedere quanto prima. In questo caso potrebbe trattarsi di una trombosi. Se si accusano invece disturbi alle gambe come pesantezza, gonfiore e dolore, si possono assumere degli integratori ed effettuare cicli di carbossiterapia.

 

Fonti

https://www.jvascsurg.org/action/showPdf?pii=S0741-5214%2812%2902334-8

https://www.ejves.com/article/S1078-5884(01)91347-4/pdf

https://www.ejves.com/action/showPdf?pii=S1078-5884%2807%2900015-9

https://www.ejves.com/action/showPdf?pii=S1078-5884%2803%2900568-9